“Noi, umani” di Frank Westerman

Ho adocchiato questo libro quando la casa editrice Iperborea lo ha postato su Instagram tra le novità in arrivo. Mi ha incuriosito da subito, soprattutto perché avevo già letto in precedenza saggi e reportage editi dalla casa editrice, e ogni volta li ho terminati con grande entusiasmo; penso a “Il tempo e l’acqua” di Andri Snær Magnason e a “L’arte di collezionare mosche” di Fredrik Sjöberg, ma soprattutto allo strabiliante “Il libro del mare” di Morten A. Strøksnes. Ero molto motivato a leggere questo reportage, “Noi, umani”, scritto da Frank Westerman, anche perché ancora non mi era capitato di leggere un libro centrato sulla storia naturale dell’uomo e sulle riflessioni inerenti all’evoluzione della nostra specie. Sono solito dedicarmi a saggi sulle piante e sugli animali, l’essere umano ancora non era entrato nella mia libreria. E, fiore all’occhiello, ho avuto la possibilità di incontrare l’autore (il 12 marzo) alla manifestazione “Libri Come” che si tiene ogni anno a Roma all’Auditorium. E infatti parlerò del libro sia con le mie parole che con quelle usate dall’autore durante la presentazione.

Frank Westerman ha iniziato la scrittura di questo reportage nel 2016 insieme a una classe di studenti di letteratura dell’Università di Leida, la più antica dei Paesi Bassi. Questa Università ha, infatti, come tradizione annuale quella di invitare uno scrittore o una scrittrice a tenere un corso. Westerman è stato il primo scrittore non romanziere. L’impresa era ardua, Westerman sapeva soltanto di cosa volesse parlare, ma non aveva pensato ad altro; la strada era lunga e aveva preparato soltanto la prima lezione, tenutasi ad ottobre, mentre le restanti fino a Natale erano un punto interrogativo. In ogni caso decise di coinvolgere gli studenti nella scrittura del lungo reportage che aveva intenzione di scrivere sull’uomo di Flores, l’Homo floresiensis.

Durante la prima lezione Frank Westerman ha iniziato a spiegare innanzitutto cosa fosse un reportage e della necessità, per scriverne uno, di calarsi nei panni di un investigatore, verificare sospetti, interrogare testimoni, immaginare probabili scenari, riflettere ad alta voce su possibili moventi. E cercare tracce sul luogo del delitto, lì dove c’era un cadavere.

«Chi di voi ha sentito parlare dell’uomo di Flores? Dell’Homo floresiensis?»

Ecco qual era il cadavere, rinvenuto sull’isola di Flores, nell’arcipelago indonesiano. Fu trovato nel 2003 in una grotta, dall’archeologo Mike Morwood, ed erano le spoglie di un ominide, una donna adulta, ma alta soltanto un metro e quattro centimetri, nonostante fosse perfettamente formata. Oltre alla statura da nana (per la quale fu ribattezzata lo Hobbit) e il peso di 25 chili, aveva anche la testa straordinariamente piccola, le dimensioni di una noce di cocco. Diverse tecniche di datazione indicavano che doveva essere vissuta 18.000 anni fa. Era una scoperta che cambiava tutte le regole dell’evoluzione, un nuovo germoglio spuntato sull’albero genealogico del genere Homo. Ma quale era il ramo? L’uomo di Flores sembrava uno “scherzo della natura”.

Nella grotta dell’isola furono trovati anche altri resti di ominidi, tutti in formato mignon. Ma nani rispetto a chi? Quale era il loro metro di paragone? Cosa è considerato normale? Perché la normalità deve essere condizionata dai connotati dell’Homo sapiens? Ecco che iniziavano i primi quesiti esistenziali.

L’isola di Flores sembra essere uscita da un romanzo fantascientifico, e non solo per l’Homo floresiensis. Nel 1950, il missionario olandese Theodor Verhoeven scoprì nella stessa grotta, i resti fossili di elefanti alti al garrese come un pony, elefanti nani per l’appunto, ma anche i resti di ratti grandi come cani, il «Ratto arboricolo gigante di Verhoeven», e di cicogne alte due metri. Ancora oggi, Flores conta diverse specie animali di proporzioni gigantesche, come le tartarughe e le lucertole che possono raggiungere i tre metri di lunghezza, chiamate varani di Komodo (rettili fuggiti da Jurassic Park). L’isola è il mondo capovolto, il paese delle meraviglie.

Ed è da questa scoperta che Frank Westerman ha iniziato il suo reportage insieme agli studenti, senza nemmeno spostarsi di molto dall’Università (andrà a Flores soltanto successivamente insieme alla figlia). Ha condotto prima gli studenti di lettere dall’altra parte della ferrovia, al campus universitario delle materie scientifiche, dove vi è una collezione di crani e ossa, e dove è custodito l’orgoglio d’Olanda, la sommità di un cranio dell’uomo di Neanderthal, per poi condurli sul fiume Mosa dove quest’ultimo ha abitato. Il cuore del suo reportage doveva essere quello di trovare la risposta ai quesiti «Chi siamo?», «Da dove veniamo?», «Dove andiamo?».

Frank Westerman inizia a raschiare il suolo, proprio come un vero archeologo, per arrivare agli albori della nostra evoluzione, ai primi ominidi, per giungere a noi; per capire se l’evoluzione stia andando in qualche direzione, ma soprattutto se l’Homo sapiens sia l’unico frutto dell’evoluzione. L’uomo di Florens a quale anello corrisponde? E l’uomo di Neanderthal? Sono entrambi affini all’Homo sapiens eppure teniamo le distanze, non sappiamo perché si siano estinti. Westerman chiede ai propri studenti di spostare l’attenzione dai nostri antenati a coloro che li hanno scoperti.

Dal rinvenimento del cranio di Flores e dalla sua pubblicazione sulla rivista Nature nel 2004, gli scienziati non hanno fatto che accapigliarsi, smentire le ipotesi, infangare le scoperte a suon di gelosie e liti. Westerman ha detto ai suoi studenti «guardate gli scopritori, le loro lotte intestine, perché questo ci dice molto su cosa siamo e cosa facciamo. Vogliamo sapere da dove veniamo, ma preferiamo ignorare quello che siamo diventati».

“Noi, umani” è un libro ambizioso che vira verso la teologia, la filosofia, la politica ambientale. Ci mette di fronte a quesiti le cui risposte vogliamo davvero saperle? E sono davvero così deludenti? Il nostro Pianeta conserva nella sua terra i resti fossili di esseri umani e animali che vanno oltre la nostra considerazione di “normalità”, siamo noi il metro di paragone per ogni cosa. L’isola di Flores però ha messo in crisi appunto questo, ogni cosa. Cosa ci rende umani? Cosa ci distingue dalle altre specie? Qualcuno suggerisce l’immaginazione, altri l’astuzia, le tecniche d’inganno messe in atto per cacciare gli altri animali. L’unica cosa certa al momento è che l’Homo sapiens è l’unico essere animale che crea e distrugge, inquina il mondo in cui vive e si distingue per la sua spietatezza. L’appello «ama il prossimo tuo» viene disatteso da duemila anni, e il detto “homo homini lupus” è un insulto al lupo. Dimenticate il pitone e dimenticate il megalodonte: gli animali più pericolosi siamo noi.

«È l’uomo la devianza, solo che si è autoproclamato norma».

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Comments 4
  1. Sembra molto molto interessante. Non conoscevo la storia di questi ominidi. E poi che bello incontrare gli autori. Piacerebbe anche a me, non ho mai avuto l’occasione.

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