“Maurice” di Edward Morgan Forster

“Maschio e femmina”. Come una sentenza, come per ricordare che non esiste altro, se non maschio e femmina. Maurice Hall ascolta, ancora fanciullo, l’ultimo insegnamento del maestro Ducie. L’ultimo prima delle vacanze estive e l’inizio della scuola media superiore. Il maestro con un bastone disegna sul bagnasciuga del litorale inglese gli organi genitali femminili e maschili, le modalità di procreazione. Maurice ascolta con attenzione e non dimenticherà mai quella lezione all’aria aperta, gli peserà sempre sul cuore, inconsciamente e senza un apparente motivo. 

“Maurice” di Edward Morgan Forster inizia qui, nel periodo più delicato e importante per un essere umano: l’adolescenza e la propria formazione. Ma in particolare il periodo della pubertà dove nella testa di Maurice (e in ogni testa umana) fanno capolino, imperterriti, pensieri lubrichi, in ogni momento, anche in quelli apparentemente più lontani dalla sfera sessuale, anche quando si prende la comunione.

Maurice Hall è un ragazzo di bell’aspetto, proviene da una famiglia ricca, educato secondo i canoni dell’epoca. E’ cresciuto senza una presenza maschile in famiglia a causa della precoce morte del padre. In casa sono lui, la madre e le due sorelle. A causa di questa situazione, Maurice non ha avuto modo di relazionare con uomini, non ha avuto modelli da ammirare, da cui prendere ispirazione. Il periodo trascorso alle scuole medie inferiori e poi a quelle superiori lo ha visto sempre con la testa sott’acqua a boccheggiare, ha sempre dovuto usare la forza per non essere sopraffatto e per ricreare il suo luogo.

Soltanto all’Università di Cambridge trova un’apparente pace, si tranquillizza. Capisce che ci sono essere umani con sentimenti affini ai suoi. Il passeggiare nel campus, osservare le luci accese degli alloggi degli studenti, le pile di libri, le attività sportive, gli infondono un senso di quiete. Sembra aver trovato un posto nel Mondo a lui congeniale.

Ed è qui che incontra Clive Durham, uno studente brillante come lui e con il quale stringe un forte legame di amicizia. Non si separano mai, trascorrono intere giornate insieme e goliardicamente lottano tra loro, rotolandosi tra pugni e prese. Quando si ritrovano da soli nella camera, Maurice è solito sedersi su una sedia mentre Clive, seduto sul pavimento, poggia amichevolmente la testa sulle sue gambe. Iniziano le carezze ai capelli, prima timide e impacciate, poi più intense, dai capelli alla nuca. E in Maurice nasce la paura, la paura terribile di perderlo. Una paura così grande che porta Maurice anche a cambiare le sue opinioni sulla religione, pur di tenere Clive a sé. 

Accade che durante le varie festività annuali i due si debbano separare, ma in quelle occasioni comincia una fitta corrispondenza. Il loro legame non deve mai essere rotto o interrotto. Maurice raccoglie tutte le lettere di Clive, le appunta all’interno del pigiama, e dorme con loro.

In uno di questi allontanamenti Maurice prova ad avere un avvicinamento con una donna, la signorina Olcott. Avvicinamento inconcludente che fa fuggir via, a gambe levate, la sventurata.

Al suo ritorno a Cambridge, Maurice racconta di lei a Clive. Gelosia. Ecco la parola d’ordine emersa come lava da un vulcano. E in questo nuovo sentimento i due piangono disperatamente, si accarezzano per recuperare il tempo trascorso lontani e in un lascito improvviso Clive rivolgendosi a Maurice gli dice: ti amo.

Una coltellata sarebbe stata meno dolorosa; la testa esplode, il cuore esplode, Maurice esplode e nell’impeto di una rabbia improvvisa, risponde a Clive così: “E’ il peggior delitto sotto il sole e non devi parlarmene mai più”.

Può una sola frase risucchiare la terra sotto ai piedi? Può strappare e scagliare lontane tutte lo sovrastrutture indossate e inchiodate a sé stessi? Quel “ti amo” costringe Maurice a fare i conti con sé stesso, ad avere il primo vero e intimo contatto con il proprio Io.

Ma l’accettazione è un processo lungo e doloroso, disarmante. Ti spoglia di tutto, ti mangia, ti lacera gli organi. Maurice piange come un bimbo, rannicchiato, batte la testa contro il muro. Si vuole male. Emerge tutta la follia suicida. 

E’ esploso ma non è morto, il dolore è stato come un fulmine che scaccia le nuvole. Il dolore, nel suo caso, è stato funzionale.

Non avrebbe più finto d’interessarsi alle donne quando l’unico sesso che lo attraeva era il suo. Amava gli uomini e sempre li aveva amati. Smaniava dalla voglia di abbracciarli e di fondere il proprio essere nel loro.

Clive al contrario di Maurice a diciotto anni aveva già accettato la sua omosessualità. Di aiuto e conforto erano stati lo studio dei greci e il rinnegare la Bibbia.

Maurice chiede scusa e gli dice che anche lui lo ama, sì lo ha sempre amato. Clive lo manda via rispondendogli male, ancora scottato. Maurice però non si arrende, passa la notte nel giardino del campus, e all’alba, dalla finestra, entra in camera di Clive. Questa volta però l’amore vince il rancore. Si invocano e si baciano.

L’amore aveva strappato Clive alla futilità e Maurice alla confusione mentale, affinché due anime imperfette potessero rasentare la perfezione.

Avrei voluto che il libro terminasse qui, ma questo non è altro che la fioritura di questa storia. In “Maurice”, Forster ha voluto scandagliare tutti gli abissi del vivere come omosessuali nell’Inghilterra edoardiana. Un’epoca in cui se amavi qualcuno del tuo stesso sesso, venivi processato e rinchiuso in carcere anche per vent’anni. Un’epoca in cui i migliori medici ritenevano di avere la cura a questa malattia, a questo male. Si garantiva il 50% di possibilità di guarigione attraverso l’ipnosi. Un’epoca in cui non si riusciva a dare un nome al proprio essere, e quanta tenerezza ho provato nel leggere di Maurice, in quello studio medico, dire “soffro dello stesso male di Oscar Wilde”.

E non erano soltanto la Legge e la scienza medica a far paura, ma anche la società, la religione, il pregiudizio e in particolare le famiglie. Perché sì, c’era una reputazione da portare avanti, un’eredità, bisognava che il buon nome della famiglia continuasse a essere. C’è un passaggio nel romanzo in cui la madre di Clive, inconsapevole di tutto, parla a Maurice (loro abituale ospite) e mostra tutta la sua preoccupazione perché il figlio non ha ancora intenzione di sposarsi e avere figli per mantenere l’eredità del padre, perché il figlio non voleva viaggiare in America per affinare il mestiere ma preferisce andare in Grecia, meta di piacere e di cattivi insegnamenti.

La scrittura di Edward Morgan Forster è ipnotica e delicata. Ha una grazia tutta sua nel raccontare anche il più profondo dolore, non vuole commiserare o impietosire. Descrive le cose così come appaiono in superficie, ma la sua è una superficie così limpida da far vedere perfettamente l’abisso sottostante.

Maurice pensa sempre a Clive, lo pensa costantemente, senza freno e senza sosta. Maurice pensa che il suo amore per lui possa guarire ogni cosa, e viceversa. Pensa che insieme staranno sempre bene, sia nell’animo che nel fisico.

Ma come in ogni vita, la direzione del nostro cuore non sempre segue la sua strada, e talvolta, anzi forse troppo spesso, prende una via diversa, magari spianata, piana ma con un sole coperto da perenni nuvole grigie.

… e penso e soffro per tutti gli amori che non hanno avuto modo di essere.

Clive lo riattrasse… Mormorò qualcosa sull’eternità nello spazio di un’ora. Maurice non capì, ma la voce gli ridiede la pace.

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