
Come addomesticare una volpe racconta il celebre esperimento avviato in Siberia negli anni Cinquanta dal genetista Dmitrij Beljaev e portato avanti per decenni dalla collega Ljudmila Trut. Si tratta di un progetto visionario e rischioso, nato in un’Unione Sovietica in cui la genetica era guardata con sospetto e spesso repressa, in cui fare ricerca significava spesso muoversi nell’ombra, correndo rischi personali e professionali. L’idea era quella di addomesticare la volpe e di farlo in tempo reale, osservando il processo mentre accadeva, invece di ricostruirlo a posteriori attraverso fossili e ipotesi.
Beljaev scelse la volpe argentata, animale geneticamente vicino al lupo, e decise di selezionarla non per l’aspetto o per l’utilità economica legata alla pelliccia, ma per un solo tratto comportamentale, la docilità verso l’essere umano. Per portare avanti l’esperimento si appoggiò a un allevamento di volpi destinato alla produzione di pellicce e, sotto quelle mentite spoglie, in un periodo in cui ogni ricerca genetica era vietata, Beljaev, insieme a un ristretto team, selezionava le volpi meno aggressive, quelle che tolleravano la presenza umana senza ringhiare o fuggire, facendole accoppiare tra loro. L’esperimento non prevedeva nient’altro, nessuna selezione estetica e nessun addestramento forzato. L’unico requisito era la docilità nei confronti degli esseri umani.
I risultati non tardano ad arrivare. Nel giro di poche decine di anni, un tempo brevissimo se paragonato ai milioni di anni dell’evoluzione, accade qualcosa di sorprendente. Le volpi iniziano a comportarsi come cani, cercano il contatto, scodinzolano, emettono vocalizzazioni di richiamo, seguono gli esseri umani e instaurano legami affettivi. Ciò che però stupisce maggiormente Beljaev e Trut è che non cambia solo il comportamento. In parallelo compaiono anche una serie di trasformazioni fisiche e fisiologiche, come orecchie flosce, muso più corto, macchie nel mantello, code arricciate e cicli riproduttivi più frequenti. È quella che oggi viene definita sindrome della domesticazione.
Dugatkin e Trut mostrano come la selezione di un solo tratto, la mansuetudine, sia sufficiente a innescare una cascata di cambiamenti profondi, molti dei quali non sono stati direttamente scelti. E mentre, capitolo dopo capitolo, seguiamo i progressi dell’esperimento, il percorso di lettura porta naturalmente a riflettere anche sull’essere umano. Emerge così una domanda affascinante, l’uomo potrebbe essere, in un certo senso, una scimmia addomesticata? Senza fornire risposte definitive né forzare interpretazioni, il libro apre questa possibilità e lascia spazio al dubbio.
È un libro alla portata di tutti. Nonostante i temi complessi legati alla genetica, all’evoluzione e al comportamento animale, la scrittura resta sempre chiara e accessibile. Il racconto mantiene un equilibrio costante tra scienza, storia e narrazione, permettendo una più profonda immersione nel contesto storico e culturale in cui l’esperimento prende forma. Come addomesticare una volpe non è soltanto la cronaca di un progetto scientifico straordinario, nel bene e nel male, ma il resoconto di un esperimento che interviene deliberatamente sul corso naturale delle cose. Se da un lato questo intervento ha permesso di comprendere meccanismi fondamentali dell’evoluzione e della domesticazione, dall’altro solleva – secondo me – una questione più scomoda, quella del diritto dell’uomo di piegare la natura ai propri interrogativi. Il confine tra ricerca e forzatura, tra necessità scientifica e volontà di controllo, resta sottile e irrisolto, ed è forse proprio in questa ambiguità che il libro continua a porre domande anche una volta terminato.


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