“Tokyo Sympathy Tower” di Rie Qudan, vincitore del Premio Akutagawa. Tra intelligenza artificiale, empatia e architettura distopica, un’intervista esclusiva all’autrice.

Ho ricevuto Tokyo Sympathy Tower di Rie Qudan dalla casa editrice L’Ippocampo qualche giorno prima della sua uscita. Mi ha subito incuriosito: per la grafica, per il mantenimento della lingua giapponese sulla copertina, per la fascetta che indicava la vittoria del prestigioso Premio Akutagawa – il riconoscimento letterario più importante del Giappone – ma soprattutto per una particolarità: l’autrice ha dichiarato di aver coinvolto l’Intelligenza Artificiale nella scrittura di alcuni brevi passaggi.

Sono un lettore molto aperto a qualsiasi forma di sperimentazione letteraria, quindi non sono rimasto scioccato da questa scelta; al contrario, ero curioso e affascinato. E poi, prima che qualcuno storca il naso, va detto che l’utilizzo dell’IA è talmente marginale da poter essere considerato quasi irrilevante. Tuttavia, si è creato un caso mediatico sproporzionato, anche se quel minimo impiego ha effettivamente aperto scenari nuovi e portato a una revisione del regolamento del Premio Akutagawa.

Ho letto il romanzo due volte: la seconda in vista dell’intervista che mi è stata data l’opportunità di fare a Rie Qudan, durante il suo tour italiano e la sua partecipazione al Salone del Libro di Torino. Da pessimo influencer qual sono, non avevo neppure pensato all’idea di realizzare una video-intervista, con tanto di cavalletto e microfono – segno evidente che appartengo a una generazione precedente. Mi sono limitato ad annotare le domande su dei post-it infilati tra le pagine del libro e ad avviare l’app delle memo vocali per registrare le nostre voci. Il mio intento era comunque quello di lasciare una traccia dell’incontro sul blog. Alla fine, le ho chiesto un autografo e una foto, per immortalare il momento.

Tokyo Sympathy Tower è un romanzo davvero singolare. Non ha una trama nel senso tradizionale, né personaggi da seguire nel loro percorso o nella loro evoluzione. Non possiede nulla di ciò che solitamente definisce un romanzo. È piuttosto un’opera moderna, futuristica, che ricrea un determinato scenario su cui invita a riflettere. La storia è ambientata in un futuro prossimo, e al centro della narrazione si trova una torre: la Tokyo Sympathy Tower, un grattacielo avanguardistico progettato dall’architetta Makina Sara. Si tratta di una struttura concepita come una prigione di lusso, pensata per offrire ai criminali tutti i comfort che non hanno mai avuto nella loro vita.

Nel romanzo si distingue tra due tipologie di esseri umani: l’homo miserabilis e l’homo felix. Il primo rappresenta l’uomo meritevole di empatia, colui che ha avuto una vita difficile, priva di principi sani, senza elogi ma anzi con rimproveri per il solo fatto di essere nato. In questi individui il sistema di gratificazione del cervello non si è sviluppato correttamente. Non riescono a immaginare un futuro felice, perché non sanno cosa sia la felicità. E senza una felicità da proteggere, commettere un crimine diventa più facile. Se non si è capaci di immaginare la felicità altrui, come si può provare rimorso per averla negata? Prima ancora di essere criminali, sono essi stessi vittime.

L’homo felix, al contrario, è cresciuto in un ambiente sano, circondato da persone che gli hanno insegnato a credere nella possibilità di una vita felice e onesta, lo hanno incoraggiato a comportarsi bene, a studiare con impegno, a guardare al futuro con speranza, anche di fronte agli ostacoli e agli errori. La capacità di immaginare un futuro è un deterrente fondamentale quando si è sul punto di commettere un crimine.

La Tokyo Sympathy Tower si erge di fronte al monumentale stadio olimpico realizzato in occasione delle Olimpiadi di Tokyo da Zaha Hadid, visionaria architetta ammirata sia dalla protagonista del romanzo che dalla stessa autrice. La torre, che funge da prigione, ospita gli homo miserabilis: criminali considerati vittime di un ambiente ostile, più da compatire che da punire. La struttura diventa così il simbolo di un’utopia distopica, dove la compassione istituzionalizzata solleva interrogativi profondi sulla giustizia e sulla libertà individuale. Chi merita davvero compassione? Il criminale o la vittima?

Un altro tema centrale del romanzo è il potere del linguaggio: la sua capacità di costruire o svuotare il significato. Rie Qudan critica in particolare l’adozione crescente di anglicismi in luogo del giapponese tradizionale, come nel caso del nome della torre: Tokyo Sympathy Tower invece del giapponese Tōkyō-to Dōjō-tō, ovvero “Torre dell’empatia della città di Tokyo”. A un certo punto, la protagonista afferma: «Ma non posso mandar giù la parola Sympathy. Di questo passo, il popolo giapponese farà una brutta fine. O sembro troppo nazionalista? Però io vedo il futuro… Un futuro in cui abbandoniamo la nostra lingua e perdiamo la nostra identità.»

Rie Qudan ha rivelato di aver utilizzato ChatGPT per generare circa il 5% del testo del romanzo, in particolare per i dialoghi dell’intelligenza artificiale presente nella storia. L’IA rappresenta infatti un altro nodo cruciale su cui l’autrice ci invita a riflettere. Non tanto per il suo impiego nella scrittura (che, come detto, è stato limitato), quanto per il suo coinvolgimento crescente nella vita umana.

Nel romanzo, uomini e donne che desiderano accedere alla torre devono sottoporsi a un test valutato da un’intelligenza artificiale. Sarà quest’ultima a decidere se la persona è degna di compassione, e quindi se può accedere o meno alla torre. Esisterà un futuro in cui le sorti umane saranno decise da un’IA? L’intelligenza artificiale è davvero in grado di provare emozioni umane, come la compassione? O può solo simularle?

Ho provato a porre alcune di queste domande direttamente a Rie Qudan.

Da dove nasce l’idea della Tokyo Sympathy Tower?

Parlando con il mio editor, è venuto fuori per caso il concetto architettonico dell’unbuilt, cioè il non costruito. Questo concetto ha subito catturato il mio interesse, così ho iniziato a documentarmi meglio, soprattutto sul lavoro di Zaha Hadid e sulle opere che ha curato. I suoi progetti, oltre a essere altamente artistici, sono qualcosa di unico, inimmaginabile, completamente visionari. Mi sono chiesta: edifici architettonici così bizzarri, che cosa potrebbero mai contenere? Riflettendo su questo rapporto tra forma e contenuto, ho iniziato a pensare all’idea di una torre-carcere, una torre-prigione.

Il romanzo esplora l’empatia in un mondo ipertecnologico. Lei crede che l’uomo dimenticherà il significato di empatia? E le macchine tecnologiche possono capire l’empatia o solo simularla?

Credo che in futuro gli esseri umani rischino di dimenticare non solo l’empatia, ma anche molte altre emozioni. Tuttavia, penso che ne nasceranno di nuove, emozioni che andranno a sostituire quelle che perderemo. Per quanto riguarda l’empatia e la tecnologia, sono convinta che l’intelligenza artificiale possa apprendere dall’essere umano cosa siano le emozioni e replicare qualcosa di simile, ma non può generarle autonomamente. Oggi, l’IA può solo apprendere dall’uomo, ma la linea di confine tra intelligenza artificiale e essere umano è sempre più fluida e labile. E forse, in un certo senso, anche l’uomo potrà apprendere emozioni dall’intelligenza artificiale.

Nel romanzo l’IA decide, attraverso un test, chi merita empatia e l’ingresso nella Torre. Lei immagina un futuro in cui l’intelligenza artificiale deciderà le nostre sorti?

Credo che questa possibilità esista davvero. In futuro potrebbe accadere che il destino dell’essere umano venga deciso dall’intelligenza artificiale. Tuttavia, questa è una possibilità che l’uomo ha la facoltà di accogliere o rifiutare. La scelta su come sarà il futuro, in definitiva, spetta a noi. Se, a un certo punto, l’uomo decidesse di abbandonare il pensiero critico, allora sì, sarà l’intelligenza artificiale a determinare le sue sorti.

Ha vinto il premio Akutagawa, il riconoscimento più prestigioso in Giappone. Secondo lei, la sua vittoria ha anche contribuito a legittimare l’IA nel mondo letterario?

Assolutamente no. La mia vittoria non significa che il mondo letterario abbia accolto l’intelligenza artificiale in letteratura. Anche perché ho dichiarato di averla utilizzata solo dopo la premiazione, durante la conferenza stampa. Se in quel momento ci fossero state più persone contrarie, il premio avrebbe potuto perfino essermi revocato. Inoltre, a seguito della mia dichiarazione, le regole del premio Akutagawa sono cambiate. Oggi, se un’opera viene candidata, l’autore viene contattato e gli viene chiesto se ha fatto uso dell’intelligenza artificiale, così da tenere conto di questo elemento nella valutazione. La giuria ora prende una decisione sapendo in anticipo se c’è stato o meno l’intervento dell’IA.

Nel romanzo esiste davvero l’homo felix, o la felicità è solo un’illusione?

Posso farti una controdomanda? Tu ti consideri una persona felice?

Per come è stato descritto l’homo felix nel romanzo, credo di aver avuto tutti i privilegi per crescere senza dover commettere crimini. Sono stato educato al rispetto di me stesso, e quindi anche degli altri. Probabilmente, però, se fossi cresciuto in un ambiente malsano, oggi non sarei un homo felix.

La felicità e l’infelicità sono concetti creati dall’essere umano, proprio come l’amore o Dio. Sono idee in cui crediamo, ma di cui non abbiamo prove concrete. Sono concetti immaginati che, proprio per questo, hanno un valore intrinseco. È il fatto stesso di credere in queste idee che rende umano l’essere umano: sono tratti peculiari della nostra specie. Il fatto che tu ti sia riconosciuto nell’homo felix del romanzo mi fa molto piacere. Ma, al di là del concetto, che cos’è per te la felicità?

È difficile rispondere, ma credo che sia riuscire a vivere sentendosi leggeri. Esistere nel mondo senza portare addosso troppo il peso dei pensieri altrui, o di ciò che la società pretende che tu sia. Provare a essere se stessi e sentirsi leggeri: se io mi sento leggero, allora sono felice.

Sono d’accordissimo con te.

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Iniziai ad andare in “ibernazione” come meglio potevo a metà giugno del 2000, a