L’Accademia mi ha convocato nella Sala del Camino, alla mezzanotte di ieri. C’erano tutti, credo, ma era troppo buio per vederli. Ha parlato solo Quello che Gorgoglia, e come temevo ha nuovamente sollecitato la mia autobiografia […] «isshgioman’zo con chui ti chonshgedi».
Il romanzo con cui ti congedi. Da Michele Mari non ci si poteva aspettare la classica autobiografia, il racconto cronologico e lineare della propria vita. Per chi ha letto anche solo un paio dei suoi romanzi, sa che Mari è uno scrittore unico, non paragonabile assolutamente agli altri scrittori e scrittrici contemporanei del nostro Paese. Ogni sua opera è peculiare, perturbante, abitata da mostri e dal lato oscuro – o almeno quello che siamo poco abituati a vedere, celato nella sua ombra – dell’essere umano. “Fantasmagonia”, “Io venìa pien d’angoscia a rimirarti”, “Verderame”, le raccolte di poesie “Cento poesie d’amore a Ladyhawke” e “Dalla Cripta” sono le opere che ho letto e sono accumunate dalle ambientazioni cupe, dai mostri celati e visibili, da visioni fantastiche, dallo stile barocco e da citazioni coltissime. Michele Mari fa in modo che il gotico italiano persista, e nel suo massimo splendore.
Un’altra caratteristica che accomuna le sue opere è il racconto dell’infanzia, considerato come il periodo della vita in cui prendono forma le strutture portanti dell’essere, destinate a reggerci fino alla morte. Anche in “Leggenda privata” è così, si va dai primi anni di scuola fino ai vent’anni circa. Michele Mari accenna soltanto che nacque hieme ineunte, all’arrivo dell’inverno, e con un salto passa, come fatto importante e riassuntivo, a quando era ragazzino e incominciò a trasferire particole di anima nei libri che leggevo, fino a dislocarvela compiutamente. In questo modo, aggiunge, poteva circolare nel mondo in maniera insensibile, come un golem, senza patire troppi danni. E quando sentiva il bisogno di recuperare un po’ di quella sua anima, allora andava a ricercarla lì dove l’aveva riposta, nei libri, fino a quando non ne aveva accumulata troppa e quindi allora faceva prima a riporla nei libri che aveva cominciato a scrivere. Ecco, fine della dinamica.
Il voler affrontare questo argomento, i libri come rifugio dell’anima, ci fa immediatamente capire che c’è stato un qualcosa nell’infanzia di Michele Mari che lo ha spinto a trovare questo diversivo per sopravvivere. Il mostro ha le sembianze del padre, con una personalità così potente da plasmare il prossimo, tanto che in sua presenza bisognava star molto attenti anche ai propri pensieri. La madre fu colonizzata da quest’uomo, lui che occupava le persone come un inquilino occupa un appartamento ristrutturandolo secondo razionalissime leggi. A sette anni il padre impose il veto al bacino per paura che il figlio potesse diventare una culattina, e la madre, per deviare dall’assurda imposizione, sgattaiolava di notte senza accendere nessuna luce nella sua stanza per imprimergli sulla fronte un velocissimo e trasvolante bacio, che a lui trasmetteva solo ansia e colpa. Esaustiva è la foto di copertina del libro, che ritrae Michele Mari bambino che si frappone come uno scudo umano tra la madre e il padre che scatta la foto, perché quando la madre non lo difendeva dal colonizzatore, allora era lui che sentiva il conato di difenderla. Il Michele Mari infante era abitato dalla paura del padre, bastava che lui lo chiamasse per ripararsi il volto all’istante, da possibili schiaffi.
Il racconto non ha un ordine cronologico, ma viaggia per visioni, per ricordi di un Michele Mari adulto. Passaggi temporali all’indietro che avvengono attraverso deliri e orrori. Di notte Quelli gli girano i bulbi oculari dentro le orbite, così da costringerlo a guardare dentro di sé. Michele Mari racconta la sua leggenda privata, tutto quello che di cui ci si vergogna, il materiale esperienziale che lo ha condotto sulla via della letteratura, quale lettore e poi scrittore. La sua autobiografia si concentra sulla figura terribile del padre, sull’amore professato in segreto della madre, sulla sudicia terza donna di servizio Velia il cui odore sembrava spirare dalle Montagne della Follia. Di grande peso furono anche la casa delle vacanze, il lago, e gli zoccoli della sua prima cotta, Donatella-Ivana-Loretta.
La scrittura è come sempre colta, ci sono citazioni a scrittori da lui amati, Borges, Lovecraft, King. Spesso il tono è ironico; soltanto chi conosce e sa descrivere l’orrore sa anche essere davvero ironico. Michele Mari con grande coraggio chiama all’appello tutti i suoi fantasmi e le sue ossessioni, rendendole pubbliche, scrivendo l’autobiografia della sua infanzia e concludendola all’età di vent’anni quando decide di non prendere l’eredità del padre. Un libro coraggioso, che potrebbe sembrare un atto di vendetta nei confronti dei mostri genitori, ma che probabilmente è, in realtà, un atto di giustizia per se stesso, quale figlio.
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