I ragazzi la chiamavano strega e i genitori la chiamavano vecchia infelice, e in effetti sembrava entrambe le cose, per via dei capelli lunghi e radi, delle spalle curve e del perenne, lamentoso borbottio.
È incredibile come Shirley Jackson riesca sempre a sorprendermi. Mi fa vagare tra le pagine dei suoi libri con passo incerto, facendomi familiarizzare con i personaggi, ma senza mai farmi avvicinare troppo o bussare alle loro porte, perché c’è sempre quell’aria malsana, quella tensione impercettibile che mi tiene a distanza. Da un momento all’altro sembra che le parole possano esplodere.
La strada oltre il muro è il primo romanzo di Shirley Jackson, pubblicato nel 1948, e l’impressione che ho avuto è che al suo interno siano presenti tutti i semi che germoglieranno poi singolarmente nei suoi scritti futuri. Sono già anticipati i temi e le atmosfere de L’incubo di Hill House, Abbiamo sempre vissuto nel castello, ma anche di molti racconti successivi, come La ragazza scomparsa, e ce ne sarebbero molti altri da menzionare. Questo, però, non significa che sia un romanzo minore o meno riuscito; al contrario, raggiunge già quella perfezione narrativa e stilistica a cui l’autrice ci ha abituato.
Il romanzo è ambientato in un quartiere residenziale americano degli anni ’40, precisamente a Pepper Street, una strada apparentemente perfetta. Qui risiedono famiglie altrettanto impeccabili, che conducono una vita ordinaria e serena; ma, come Shirley Jackson ci ha insegnato, sappiamo già che dietro il velo cristallino si celano crepe profonde e un’inquietudine latente. Tutti gli abitanti sono ossessionati dalla rispettabilità sociale, dalle apparenze e dal mostrarsi degni. Il bellissimo incipit anticipa l’ipocrisia che raccoglieremo a piene mani nel corso della lettura.
In certi luoghi il clima è più mite che in altri, a certe persone il mondo riserva uno sguardo più benevolo che ad altre. […] certe persone sono automaticamente al di sopra di ogni sospetto. Mr. John Desmond, Mr. Bradley Ransom-Jones, Mr. Michael Roberts e Miss Susannah Fielding, tutti residenti in Pepper Street a Cabrillo, una cittadina californiana, consideravano la propria invulnerabilità un diritto; Mr. Myron Perlman e forse Mr. William Byrne, anche loro di Pepper Street, sarebbero stati ottimisti se non l’avessero considerata semplicemente un destino. Nessun uomo possiede una casa perché la desidera davvero, né si sposa perché sceglie la monogamia, ma tutti quegli uomini erano sposati e la maggior parte di loro possedeva una casa, e si ritenevano ragionevoli e generosi, e persino, sotto sotto, responsabili.
Fin dalle prime pagine, il lettore viene bombardato da Mr, Mrs e Miss, e da una miriade di nomi di bambini. Anche se inizialmente si prova una certa confusione, si procede fiduciosi, consapevoli che Shirley Jackson ha pieno controllo di ogni personaggio: conosce ogni angolo del loro essere e farà in modo che anche noi acquisiremo la sua stessa consapevolezza. La trama ruota attorno a eventi banali e quotidiani – riunioni di cucito, passeggiate nel quartiere, cura del giardino, spesa in drogheria, giochi tra bambini – che, però, a poco a poco svelano la crudeltà e la complessità della natura umana.
A sconvolgere la routine di Pepper Street saranno due eventi in particolare: l’arrivo di una nuova famiglia, considerata non degna di vivere lì, e l’abbattimento di un muro (da cui il titolo del romanzo) che metterà in comunicazione Pepper Street con un’altra strada, permettendo così agli estranei di sbirciare dentro questo “mondo perfetto”. Questi eventi sono la goccia che fa traboccare il vaso, facendo emergere tutto il marcio dietro il finto incanto e mettendo in evidenza il lato oscuro e meschino della comunità, tra pettegolezzi e razzismo. Il cittadino perfetto si trasforma in carnefice sociale, senza usare armi, ma alzando barriere invisibili e lanciando parole avvelenate.
La maestria di Shirley Jackson è, come dicevo, già a un livello altissimo. Non ho trovato incertezze, tempi morti o paragrafi superflui: tutto è perfettamente calibrato. Non ricorre a effetti speciali o azioni adrenaliniche; a dominare sono, come sempre, gli eventi quotidiani che si caricano di significato e generano una sottile tensione che striscia sotto la superficie, accumulandosi fino al raggiungimento di un evento tragico, inevitabile ma allo stesso tempo inaspettato. La tragedia fa crollare il muro della moralità; ciascuno incolpa l’altro, ci si rifugia nelle menzogne e si evita di guardare dentro se stessi. Tutti, in un modo o nell’altro, sono complici della cultura del sospetto e dell’esclusione.
Il finale è ambiguo e privo di una risoluzione, un tratto tipico dello stile di Shirley Jackson, che lascia sempre molte domande senza risposta e tanti sospetti, proprio perché non c’è mai una sola conclusione ma diverse colpe disperse. Chiunque potrebbe essere colpevole, con le proprie motivazioni; ognuno è prigioniero delle proprie gabbie mentali, e per molti è più facile macchiarsi di sangue che affrontare i propri difetti morali. L’autrice ci lascia, come sempre, con la consapevolezza che il vero orrore spesso si cela nei gesti quotidiani e nei nostri pensieri più nascosti.
Harriet capì subito che quella frase l’avrebbe afflitta per mesi, forse per tutta la vita, e farfugliò: «Adesso sto dimagrendo».
«Non è tanto che sei grassa» disse Miss Tyler in tono critico. «Il fatto è che non hai l’aria di una bella donna. Per esempio, anche se dovessi dimagrire continuerai per tutta la vita a camminare come se fossi grassa».
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