“Whalefall” di Daniel Kraus. Nella balena

Sono rimasto in apnea per tutta la lettura di Whalefall di Daniel Kraus, e non solo perché il romanzo è ambientato nelle profondità dell’oceano. Ho sentito lo stomaco e la gola stringersi: in queste pagine ho ritrovato tanto di me, del mio rapporto con mio padre, della malattia di mio padre. Ho rischiato più volte di crollare emotivamente, eppure non riuscivo a smettere di leggere. Volevo accompagnare Jay Gardiner nelle profondità dell’oceano, aiutarlo a ritrovare suo padre, non solo fisicamente ma soprattutto emotivamente. Desideravo che riuscisse a riporlo finalmente dentro di sé, a fonderlo nel proprio corpo per alleviare il dolore, il senso di colpa e per trovare una pace mai provata prima.

Jay Gardiner è un ragazzo di diciassette anni costretto, suo malgrado, ad affrontare una terribile esperienza: accettare la morte di suo padre, Mitt, che, dopo aver scoperto di avere un tumore incurabile, decide di togliersi la vita annegandosi nelle acque profonde di Monastery Beach, in California, il luogo in cui era solito immergersi. La battaglia più difficile per Jay è quella contro se stesso, contro il senso di colpa che lo divora per aver abbandonato il padre nel momento di maggiore bisogno, scappando di casa e lasciando che fossero solo la madre e le sorelle a prendersene cura.

Se Jay lo ha fatto, però, è perché odiava suo padre. Odiava che fosse amato e venerato da tutti: il grande sommozzatore, il grande conoscitore degli oceani, Mitt, l’uomo che salvava la vita dei subacquei imprudenti. Il suo corpo era pieno di tatuaggi, ognuno a ricordo di ferite subite durante imprese spericolate o eroiche. A casa, però, Mitt era tutt’altro: un uomo alcolizzato, incapace di tenersi un lavoro o di prendersi cura della famiglia. Era un padre che aveva abbracciato Jay soltanto il giorno della sua nascita, per poi denigrarlo e colpevolizzarlo continuamente: perché era pavido, perché era debole come una “femminuccia”, perché non riusciva a tenere testa ai compagni di classe o alle loro botte. Perché non era come lui.

Soltanto nel momento in cui il padre non c’è più, il dolore travolge Jay con la forza di un’onda anomala. E l’unico modo per poter fare qualcosa, adesso che è troppo tardi, è trovare il corpo di suo padre negli abissi, anche solo le ossa, qualsiasi cosa da riportare in superficie e da consegnare alla madre e alle sorelle. Per chiedere scusa e sperare in un perdono. Non sa però che quella sarà la sfida più difficile della sua vita. Durante l’immersione, Jay incontra un calamaro gigante, si chiede il motivo per cui si trova così vicino alla superficie, e poi capisce che sta scappando da un’enorme balena, un capodoglio, che, in un attacco potente, inghiotte il calamaro… e Jay.

Si ritrova intrappolato all’interno del primo dei quattro stomaci dell’animale, insieme al calamaro e ad altri esseri ingeriti dal capodoglio. Jay ha solo un’ora di ossigeno a disposizione, deve lottare per la sopravvivenza in questo luogo buio, claustrofobico e surreale, dove la realtà si confonde con l’immaginazione. Deve combattere contro i suoi fantasmi e trovare una via d’uscita.

Mentre Jay cerca di capire come affrontare la situazione, i capitoli alternano presente e passato, tra la lotta per la sopravvivenza e i ricordi che ha del padre. Ed è proprio riflettendo sul loro rapporto conflittuale che riesce a capire che non tutto era sbagliato, che la rigidità del padre non era odio nei suoi confronti. Non voleva un figlio diverso, non voleva offenderlo. Tutte quelle lezioni date a pugno fermo – nonostante le lacrime – servivano per affrontare il mondo, per resistere a una vita mai benevola, per trovare la forza e salvargli la vita.

«Finirò per rovinarti la vita.»

(Ovvio che lo farai, papà)

«Ma forse posso anche insegnarti delle cose.»

(Sono sicuro che lo farai, papà)

«In modo che un giorno tu possa vivere la vita che vuoi. Fare tutto ciò che vuoi.»

(Perché sei tanto in ansia, papà?)

«Ci penserò io. Ti darò tutti gli strumenti.» 

(Io non voglio strumenti, papà)

«Così figliolo, nel momento del bisogno, saprai esattamente cosa fare.»

(L’unica cosa che voglio sei tu, papà)

Whalefall è un grande romanzo, indefinibile perché mescola vari generi: dal romanzo di formazione a quello di avventura, dal trattato scientifico al romanzo dell’orrore. Si ispira a storie bibliche, come quella di Giona, e alla letteratura classica e mitologica. Essere all’interno della balena ha un valore simbolico: la balena è suo padre. Daniel Kraus è uno scrittore straordinario, capace non solo di creare un’atmosfera di tensione sempre più asfissiante, che ci fa sentire intrappolati nello stomaco del capodoglio, ma anche di dare profondità alla storia attraverso continui flashback che ci intrappolano anche emotivamente. Whalefall è una meditazione sulla vita, sulla morte e sui legami familiari che ci definiscono.

C’è tanto rigore scientifico: Kraus ha coinvolto biologi marini per rendere la storia il più credibile possibile e ha consultato personalmente manuali di cetologia. Le descrizioni anatomiche sono precisissime, così come quelle comportamentali dei cetacei (che spesso riflettono i comportamenti umani). Non ho trovato nulla che non andasse in questo libro. L’ho amato dalla prima all’ultima pagina. Ho pianto, ho rivissuto momenti bui, ho ritrovato la mia rabbia e il mio voler non capire, ma alla fine, anche io, come Jay, sono arrivato al cuore di papà. L’ho abbracciato così forte da finirci dentro.

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