“La Storia” di Elsa Morante

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Sono tornato a leggere Elsa Morante dopo molti anni dal primo libro che lessi scritto da lei, “L’isola di Arturo”. Ricordo, chissà perché, uno dei momenti in cui lo lessi. Ero sul bus che da Salerno mi portava al mio paese. Avevo il mare fuori dal finestrino, sul golfo di Salerno, e guardando all’orizzonte immaginavo di scorgere l’isola di Procida, in effetti nemmeno troppo lontana, anche se non visibile. A separarci c’era una costiera. Arturo ha rappresentato tanto per me, la sua dolcezza, la sua ingenuità, il suo modo di scoprire il mondo, quel piccolo mondo dell’isola di Procida. Mi sono rivisto molto in lui, soprattutto nel suo rapporto con il padre. Lui lo attendeva sulla banchina, aspettando il traghetto che glielo avrebbe riconsegnato. Io attendevo il mio papà dalla finestra di casa dei nonni che dava in giardino. Anche lui tornava da Napoli, ma per via terra, con una corriera.

Quando decisi di leggere altro di Elsa Morante ero ancora ai primi anni del liceo, non avevo siti Internet dove controllare le sue pubblicazioni. Il libro che trovavo sempre in libreria era “La Storia”. Non lo comprai mai, perché io cercavo altre storie come quella di Arturo, ambientate vicino casa mia. Leggevo la trama di “La Storia” e lo riponevo ancora una volta nello scaffale. Non volevo leggere di guerre, di fascismo. A scuola la storia non mi è mai piaciuta, la studiavo perché ero diligente, ma non ho mai provato un vero interesse. Quindi ho dimenticato Elsa Morante, ma non “L’isola di Arturo” che ho consigliato e regalato a chiunque volessi bene.

L’edizione che ho del romanzo “La Storia” l’ho recuperata in un mercatino dell’usato. L’ho comprato tempo fa, non perché volessi leggerlo, ma pensai che in fondo si trattasse pur sempre di Elsa Morante, la più grande scrittrice del ‘900. Quel libro dovrebbe essere, pensavo, a prescindere, in ogni casa. Lo davo per scontato.

Perché l’ho letto allora? Voglio essere il più sincero possibile. È stato a causa delle ultime elezioni politiche, del 25 settembre, e di questo tanto parlare di un ritorno al fascismo. Di politica me ne intendo poco, la seguo poco, cambio canale se sento i candidati parlare. Sbaglio, faccio male, perché ho il diritto al voto, e quel voto vale tanto per me e per il Paese in cui vivo. Eppure qualche volta mi sono sforzato, li ho sentiti parlare, mi arrabbiavo, a volte mi facevo abbindolare, altre ho pensato che qualcuno di loro potesse fare qualcosa di importante per tutelare i diritti delle persone.

Quando sento la parola fascismo, ho paura, ho sempre avuto paura. Ricordo una volta di aver letto una testimonianza di un sopravvissuto ai campi di sterminio. Raccontava che nel piazzale dei lager spesso nevicava. Ma a scendere giù non erano fiocchi di neve, ma cenere di altri esseri umani bruciati nei forni crematori. Quando la cenere si posava addosso e la toccavi, restava la macchia. La neve si sarebbe sciolta, ti avrebbe bagnato. E quindi in televisione continuavo a sentire questa parola, fascismo, chi inveiva contro la destra dicendo che chi la rappresentava fosse fascista e chi della destra con orgoglio rivendicava fieramente di esserlo, o con leggerezza disarmante affermava di aver consegnato il fascismo alla storia. Davvero, pensavo, giocano su questo? In primo piano sono stati riportati diritti fondamentali dell’uomo, e ci hanno giocato a una partita di pallavolo, schiacciando, passandoseli, o buttandoli fuori. Perché questa gente come se fosse Dio può decidere cosa o non cosa io sono libero di fare con il mio cuore, con il mio corpo? Perché la mia libertà di amare o di decidere cosa fare del mio corpo può minare la sicurezza dello Stato, o il benessere dello Stato? Assistevo a tutto questo immerso nella mia ignoranza di come possa essere gestita la res publica. Ragionavo con il mio sentire, ma ero spaventato, per quello che poteva accadere e per come veniva pronunciata la parola “fascismo”, come se non avesse alcun peso.

È stato tutto questo a farmi aprire “La Storia” di Elsa Morante e a darmi la spinta a leggere la prima pagina, per arrivare senza accorgermene alla fine, dissanguato e con il desiderio di essere qualsiasi altro essere vivente al mondo, ma non un essere umano. Perché l’orrore non è solo fascista, o nazista, ma è anche dei sovietici, degli americani, dei giapponesi, dei coreani. L’orrore è della Storia, non è mai finito e mai finirà.

E Ida, seduta di fronte a lui nella fredda cucinetta di Via Bodoni, si domandava se in quel grandioso Mondo Nuovo ci sarebbe posto, almeno, per i piccoli come Useppe.

La Storia viene raccontata avendo molto vicini alcuni personaggi che compongono un nucleo famigliare. Ida è il personaggio che ci accompagna dall’inizio alla fine. È una mezzosangue, nata da una madre ebrea e da un padre ateo. La incontriamo subito, dopo aver letto poche pagine. La prima cosa che conosciamo di lei è il suo sguardo che muta all’apparizione di un soldato tedesco sulla soglia del portone del palazzo dove abita: lo fissò con occhio assolutamente disumano, come davanti all’apparizione propria e riconoscibile dell’orrore. Da qui inizia tutto, da questo incontro. E si riparte a ritroso, per conoscere le circostanze che hanno portato quella donnetta a scontrarsi con un soldato tedesco a Roma, nel quartiere di San Lorenzo. 1941.

Ida è rimasta vedova prematuramente, con il carico di crescere da sola, nella povertà, suo figlio Nino e quell’altro figlio venuto dopo, dal caso, dalla forza bruta, Giuseppe, ma che per tutto il romanzo verrà chiamato Useppe, perché lui è così che sa pronunciare il suo nome. Un nucleo di dolcezza nato dalla fanghiglia. Ida si arrabatta da sola, deve percorrere l’intera città per raggiungere la scuola dove insegna. Per più della metà della giornata i figli sono figli di nessuno. Nino, spavaldo, con le idee chiare, è un mezzo teppistello che ruba, fa a pugni, si riempie la bocca di paroloni che non capisce, fiero del duce. Useppe invece vestito di stracci è lasciato solo in casa, ogni tanto la portiera in possesso delle chiavi va a dargli uno sguardo. Qualche volta Nino lo rapisce e lo porta in giro per il quartiere. Lo ama come nessun’altra cosa al mondo, e il suo amore è ricambiato da Useppe che in continuazione, come un richiamo disperato ma di gioia, grida Ino, Ino. Ida la vediamo sempre con le mani piene di sporte, con la spesa, di fretta che si dilegua costeggiando i muri dei palazzi, come se temesse che camminando un po’ più fuori possano esplodere bombe, o che le possa accadere qualcosa di brutto. E le bombe davvero esplodono. Nino prova più volte a incoraggiarla dicendo che Roma non potrà mai essere bombardata, perché c’è il Papa, il Vaticano. Ma le bombe arrivano anche lì.

Siamo nel pieno fascismo, Mussolini si è alleato con Hitler. Vengono fatte le leggi razziali, che al solo leggerle si ha i brividi. Ida è una mezzosangue, mezza ebrea, non sa se il suo status rientra nelle leggi appena fatte, se deve andare a denunciarsi. Ma i racconti che sente sono terribili, Roma viene svuotata dagli ebrei, cercati a uno a uno dopo aver consultato i registri. Presi di forza dalle loro case. Non si sa bene dove vengano portati. I racconti sono così orribili da non sembrare veri, talmente assurdi da superare la soglia della credibilità. Sarà la Storia poi a confermarli. Cosa deve fare Ida? Se prima strusciava contri ai muri per passare inosservata, adesso cammina nell’ombra. Cosa ne sarà di Nino e di Useppe se viene portata via?

Lo scenario che si presenta al lettore è apocalittico. Più leggevo e più qualcosa dentro di me si ritorceva, si sformava, riprendeva forma, mutava, in una costante nausea dovuta alla disumanità di quello che stavo leggendo. Il suono delle sirene, quell’attendere in estremo silenzio il disastro delle bombe, nella speranza che anche quella volta non sarà il tuo turno. Una città invasa dai militari, italiani e tedeschi. Ida perde la casa, è costretta a fuggire, andare via da Roma, ad allontanarsi per raggiungere quel rifugio di cui aveva sentito parlare, a Pietralata. Con sé soltanto Useppe e una sporta con dentro i pacchetti della Croce Rossa. Nino invece va e viene, da adoratore del duce sembra adesso lottare insieme ai compagni della Resistenza. Non esiste più intimità, non ci si fida più di nessuno, non sai come fare a sopravvivere fino al giorno dopo. E anche la persona più retta al mondo, costretta in quello stato, diventa un topo di fogna, disposto a tutto per un pugno di farina.

Leggendo “La Storia” mi sono imbattuto più volte in quartieri di Roma che conosco benissimo, angoli, ponti, strade, perché sono a un passo da dove abito o semplicemente perché sono costretto a passarci per andare al lavoro o per incontrare i miei amici. Una domenica ho preso il libro e sono uscito di casa. Sono andato nei luoghi che Elsa Morante nomina. Ho iniziato dal quartiere Testaccio, dal civico 41 di Via Amerigo Vespucci, dove all’ingresso di un condominio c’è una targa a lei dedicata, In questa casa ha abitato una straordinaria scrittrice italiana Elsa Morante (Roma 1912 – 1985) una mente visionaria un profondo sentimento del dolore una viva complicità con gli umili capace di trasformare la Storia in mito la vita in favola crudele e misteriosa. La targa è qui perché Elsa Morante vi ha trascorso i primi dieci anni di vita. Non potevo iniziare altrove. Poi mi sono spostato di poche centinaia di metri, sempre nel quartiere Testaccio, precisamente in Via Giovanni Battista Bodoni. In questa strada, nel romanzo, c’è l’ultima casa di Ida. L’ho percorsa tutta e mi sono accorto che è la stessa strada dove c’è uno dei miei cinema di riferimento, il Greenwich. Ho guardato i condomìni, quelle case popolari basse e bianche, immaginando Useppe uscirne inseguito dal cane Bella, urlante Ino, Ino, o anche Avide. Il mio stomaco non ha mai smesso di avere quella nausea da disumanità. Useppe è stato il mio personaggio preferito, delineato da Elsa Morante magistralmente, è il cuore più puro esistente, messo in contrasto alla polvere nera dell’atrocità. La sua innocenza e il suo sguardo, per sempre cambiato dopo aver visto quel treno a Tiburtina carico di esseri umani diretti ai campi di sterminio, sono lo squarcio luminoso in quel mondo a luci spente.

Con il libro stretto sul petto, ho raggiunto il Ghetto ebraico. Quante volte ci sono stato con gli amici, al forno, a mangiare al ristorante i piatti della cucina kosher, o a parcheggiare l’auto per andare a Piazza Venezia. Anche quella domenica, il quartiere era festante, turisti e persone che passeggiavano con i volti sereni. Ho abbassato lo sguardo, davanti agli ingressi delle abitazioni e ho visto quei sanpietrini di un colore diverso, di ottone, con sopra incisi i nomi delle persone prese di forza da quelle case, arrestate e portate a morire nei campi di concentramento. Le pietre d’inciampo. Più leggevo e più mi vergognavo di me stesso. Mi vergognavo di quello che era successo, mi vergognavo della mia incapacità di capire davvero quell’orrore, mi vergognavo di fare foto, di essere lì, di essere umano. Nel romanzo sono raccontate alcune delle scene più emotivamente intense lì nel Ghetto. Ida ci torna per consegnare un biglietto datogli da uno sconosciuto imprigionato nel treno destinato ai lager, ma trova un quartiere fantasma, non c’è nessuno, è rimasto solo lo scheletro. Le persone se ne stanno alla larga, hanno il terrore anche solo di transitarci. 

Ieri, Sabato (16 ottobre 1943) tutti i giudii di Roma erano stati razziati all’alba, casa per casa, dai Germani, e caricati su camion verso destinazione ignota. Del quartiere del Ghetto, svuotato interamente di tutta la carne giudia, non c’era restato altro che lo sheletro; ma anche in tutti gli altri rioni o quartieri, tutti i giudii di Roma, singoli e famiglia, erano stati scovati dagli SS che erano venuti apposta con una compagnia speciale, fornita di un elenco esatto. Li avevano pigliati tutti: non soltanto i giovani e i sani, ma gli anziani, gli infermi pure gravi, le donne anche incinte, e fino le creature in fasciola. Si diceva che li portassero tutti a bruciare vivi nei forni; ma questo, a detta di Tore, forse era esagerato.

È stato come se la Roma che conoscevo si fosse trasformata in un nuovo mondo, tutti quei luoghi che frequento, le piazze dove sosto seduto su una panchina, i palazzi, gli archi di Porta Portese, si fossero infettati perdendo la crosta superficiale per far fluire fuori il loro cuore sanguinante, martoriato. A essere raccontati sono gli orrori della guerra, ma anche quelli generati da un sistema politico che reprime ogni tipo di libertà individuale. Elsa Morante va oltre il fascismo e il nazismo. È ovvio che racconti di quel periodo storico perché lo ha vissuto, ha materiale a sufficienza per scriverne dettagliatamente, ma si allarga, distende il velo fino ad avvolgere l’intero Globo e le epoche storiche. Corsi e ricorsi storici. Se l’Italia è libera ecco che altrove inizia una nuova repressione. Una condizione imperitura, senza possibilità di tregua. Una maledizione. “La Storia” di Elsa Morante è indubbiamente un capolavoro della letteratura, scritto magistralmente, a un livello superiore l’eccellenza, per stile e per contenuto. È uno di quei romanzi che una volta letti inducono a una evoluzione, se non addirittura a una rivoluzione. Se ne esce con una consapevolezza nuova, con la testa che frulla e che prova a trovare una pace. Che non arriva. Ti domandi come tutto sia stato possibile, è come sia ancora possibile che orrori del genere continuino a esserci. Dobbiamo davvero rinunciare all’idea di un Mondo Nuovo in cui potrà esserci posto per i piccoli come Useppe?

tetti ghetto ebraico
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Comments 8
  1. Gaetano come sempre riesce a colpire al centro del cuore e dello stomaco. Ogni sua parola riesce sempre a portarmi a sfogliare il libro che racconta. Grazie a lui ho letto libri che forse non avrei mai acquistato. Per questo lo ringrazio e anche per L ‘eleganza, l’umiltà e la delicatezza dei suoi articoli.

  2. Mi si è stretto il cuore… non riusciremo mai, anche solo lontanamente, a immaginare quel buio. Una ferita che non si rimarginerá mai, perché nuova ciclicamente. Ma non dobbiamo mai smettere di credere e lottare per un sistema diverso, dove per vivere non occorre limitare un altro.
    Grazie

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