“A Sud del confine, a Ovest del Sole” di Haruki Murakami

La prima volta che ho scoperto Haruki Murakami ero un giovane ragazzo che frequentava il secondo anno del Liceo Scientifico “Bonaventura Rescigno” di un piccolo paese della provincia di Salerno. Quel giorno ero molto felice perché la scuola in collaborazione con una piccola libreria del paese aveva installato dei banchetti con tutte le novità editoriali. Noi alunni, una classe per turno, potevamo gironzolare e lasciarci ispirare da uno di quei romanzi per acquistarlo.

Ero indeciso su quale libro prendere, così il libraio, vedendomi lì confuso, prese un romanzo e me lo mise tra le mani scommettendo che mi sarebbe piaciuto. Era “Norwegian Wood – Tokyo Blues”.

Ricordo che fu una bella lettura, divorai quel libro, ho ancora alcune immagini impresse, ma non fu amore completo. A distanza di poco tempo lessi anche “La Fine del Mondo e il Paese delle Meraviglie”. Probabilmente quella non era l’età giusta, per me, per leggere Murakami. Avevo apprezzato i libri, ma il plus emotivo non si era aggrappato addosso, scivolava via.

Molte volte andando in libreria mi sono diretto alla lettera “M” per comprarne ancora un altro e rigiravo tra le mani sempre lo stesso titolo “A Sud del Confine, a Ovest del Sole”. Ho impiegato tanti anni per convincermi, temevo di nuovo di non riuscire a entrare in connessione con il libro e con l’autore.

E invece è accaduto. Ne sono uscito completamente devastato. Dalla prima parola all’ultima ho avuto una mano che mi stringeva il cuore. Ancora adesso, dopo giorni che l’ho terminato, ascoltando la canzone “Pretend” di Nate “King” Cole ho il magone.

Pretend you’re happy when you’re blue

It isn’t very hard to do

Con questa canzone Hajime e Shimamoto si innamorano quando sono soltanto dei ragazzini di dodici anni. É la canzone che lega le loro solitudini, il loro sentirsi diversi. É la canzone che accompagna le loro emozioni ancora non chiare, nuove, sconosciute. La canzone che apre il loro amore e chiude il libro.

Sia Hajime che Shimamoto sono figli unici e questo rappresenta per loro una diversità, un dettaglio di emarginazione. Negli anni 50 in Giappone era molto raro essere figli unici, le famiglie erano composte da almeno tre figli. Essere l’unico figlio o l’unica figlia comportava in automatico tanti pregiudizi. Si riteneva che i genitori probabilmente erano troppo vecchi per avere altri figli e che questi ultimi essendo cresciuti da soli fossero viziati e incapaci di relazionarsi.

Se Hajime si avvale di questa diversità per avallare il suo voler stare da solo, non avere amici e coprire le sue mancanze, al contrario Shimamoto diventa una ragazza temeraria e di cui aver timore, probabilmente perché deve farsi carico anche del difetto alla gamba e alla sua andatura claudicante.

Uniscono le loro solitudini, anzi capiscono che in due si può smettere di essere soli, di sentirsi diversi. Iniziano a vedersi ogni giorno anche dopo la scuola, studiano insieme, ascoltano vecchi vinili restando in silenzio vicini. Entrambi amano Nat “King” Cole, lo ascoltano senza fine, anche il suo album natalizio quando non è Natale, e poi “A sud del confine”, la loro canzone preferita insieme a “Pretend”. Spazio e tempo smettono di esistere. Si tengono per mano e qualcosa dentro di loro si muove, si agita, vuole uscire fuori.

E poi però si cresce, ognuno deve prendere la sua strada, il proprio percorso di studi. Si dividono e non sanno nemmeno loro cosa stanno separando, se un’amicizia, un amore o se ancora qualcosa di più grande. Smetteranno di vedersi.

Che ne sarà di me domani.

Quante volte ci capita nella vita di lasciar andare cose a cui tenevamo davvero, a cui avevamo donato tutto il nostro cuore. Le lasciamo andare così senza nemmeno un saluto, un commiato, un addio. Senza nemmeno provare a riprenderle. Ci lasciamo trasportare dalle circostanze e smettiamo di pensarci.

Però poi tutto torna, come una discesa dalle montagne russe, senti tutto dentro lo stomaco e capisci che ti manca un pezzo. E non è più semplice riprenderlo e metterlo al suo posto perché hai accumulato tanti altri pezzi, anche superflui, poggiati l’uno sull’altro, messi in doppia fila. Bisogna adesso fare spazio per il solo tentare di riaverlo. Questo comporta il sentire dolore e il provocare dolore in altri.

Gli essere umani, a volte, sono destinati, per il solo fatto di esistere, a fare del male a qualcuno.

A ripensarci adesso, a distanza di anni, l’unico fatto innegabile era che possedevo la capacità di commettere il male. Non avevo mai pensato di voler procurare dolore a qualcuno ma , se necessario, ero capace di trasformarmi in un essere egoista e crudele.

Hajime è grande, ha superato i trent’anni. Ha una moglie, due figlie, due locali famosi dove si suona la musica jazz. Si sente soddisfatto, pensava di non riuscire ad avere tutto quello che ha una qualsiasi altra persona “normale”. A volte però per strada gli capita di vedere una ragazza e di scambiarla per Shimamoto. Con nessuna donna ha provato quelle emozioni, eppure ama sua moglie. Si domanda come sarebbe stata la sua vita se l’avesse creata con Shimamoto, chissà se incontrandola sarebbe stato capace di riconoscerla.

Un giorno grigio, con la pioggia, Shimamoto entra in uno dei locali di Hajime. Si siede a un tavolino appartato e lo guarda, gli lancia continue occhiate. Hajime non la riconosce. É una donna bellissima, vestita elegantemente con bracciali d’oro. Le ore passano, lei imperterrita attende al suo tavolo. Hajime però non va.

Una nuova straziante separazione senza nemmeno un commiato, ma questa volta Shimamoto sfida l’Universo, si alza e si incammina verso di lui.

Che vorrà dire “The Star-Crossed Lovers”? disse Shimamoto.

Significa “amanti nati sotto una cattiva stella”, amanti sfortunati.

Mentre scrivo questa recensione, lo ammetto, ho il magone. Ripenso a loro due, alle cattive stelle, alle parole che si scambiano, al loro dolore e agli attimi di felicità. E penso alla mia vita, al mio “che ne sarà di me domani”, alle cose che ho lasciato andare senza provare a tenerle con me. Cose ormai lontane, che talvolta si riaffacciano, ma che probabilmente non possono più far parte della mia vita, se non in una scommessa impacchettata dall’inevitabile dolore.

La scrittura di Haruki Murakami in questo romanzo è sublime, raggiunge vette poetiche di straordinario impatto. Sono stato emotivamente coinvolto in ogni pagina e in apprensione per i destini di Hajime e Shimamoto. La descrizione delle loro anime ha una potenza sconvolgente, è una sera fredda di pioggia. É sotto la pioggia che si ascolta meglio il nostro cuore.

Ho letto la storia di un amore eterno, velato di malinconia, che mi ha lasciato i brividi. Meraviglioso.

In quell’oscurità pensai alla pioggia che cadeva sul mare. Alla pioggia che cadeva zitta zitta sull’immenso mare, senza che nessuno lo sapesse. Che colpiva senza rumore la superficie dell’acqua, all’insaputa persino dei pesci. Continuai ad avere davanti agli occhi quell’ immagine, fino a che qualcuno mi si avvicinò e mi appoggiò con delicatezza una mano sulla spalla.

Total
0
Shares
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Prev
“Non dimenticare i fiori” di Kawamura Genki

“Non dimenticare i fiori” di Kawamura Genki

“Non dimenticare i fiori” di Kawamura Genki è una di quelle storie così intime e

Next
“Il botanico inglese” di Nicole C. Vosseler

“Il botanico inglese” di Nicole C. Vosseler

La scrittrice Nicole C