“Il sentiero del sale” di Raynor Winn

Furfanti, vagabondi e barboni: in qualsiasi modo si classifichino i senzatetto, nell’estate del 2013, noi diventammo due di loro.

“Il sentiero del sale” è un testo autobiografico che racconta parte della vita di Raynor Winn e del marito Moth, dal giorno in cui divennero dei senzatetto e decisero di incamminarsi e di percorrere a piedi, con zaino in spalla, tutta la costa da Minehead, nel Somerset, attraverso il Devon settentrionale, la Cornovaglia, e il Devon meridionale, fino a Poole, nel Dorset, per un totale di 1.013 chilometri.

A causa di una “palese ingiustizia”, infatti, dopo aver riposto fiducia per un affare nella persona sbagliata, il tribunale aveva privato Raynor e Moth di ogni bene materiale, compresa la casa che rappresentava il loro unico sostentamento. I due coniugi avevano costruito la fattoria dei loro sogni dopo anni e anni di sacrifici; allevato pecore, galline e altri animali, coltivato l’orto per produrre beni alimentari, e affittato camere per turisti desiderosi di provare l’esperienza di vivere a contatto con la natura. Ormai cinquantenni si erano sentiti fieri di quello che avevano creato e orgogliosi dei figli che lontani frequentavano l’università.

Potrebbe sembrare già il peggiore dei destini, ma c’era qualcos’altro in serbo per loro, qualcosa che non prevedeva alcuna possibilità di salvezza. Durante la fase giudiziaria, a Moth fu diagnosticata una malattia incurabile e invalidante che lo avrebbe portato nel giro di pochi anni alla paralisi di tutti gli arti. Il campanello d’allarme era nato quando iniziò ad avere difficoltà nell’alzarsi dal letto, le gambe e le braccia non disposte ad aiutarlo. Come avrebbero fatto, allora, a camminare per oltre mille chilometri, a dormire in tenda, in balia degli elementi?

È difficile immedesimarsi in una situazione come questa, provare anche solo minimamente a sentire il dolore di una ferita così grande. Forse l’orgoglio, il non voler essere di peso ai famigliari disposti a ospitarli, il non voler farsi vedere dai figli come dei perdenti, il non riuscire a stare fermi nell’estenuante e lunga attesa dell’assegnazione di una casa popolare, li aveva spinti a recuperare pochi viveri, qualche ricambio, una piccola tenda, e a iniziare a camminare. Era sembrata la scelta più naturale.

Non eravamo diretti verso un nuovo inizio, verso una nuova aurora con la vita che si schiudeva davanti a noi. La terra si era spaccata; avevamo lasciato noi stessi sull’altro lato di una fenditura che non avremmo mai potuto riattraversare. Fuggendo dallo squarcio nel guscio di qualcun altro. Andando via e basta. E davanti a noi? Camminare, soltanto camminare.

Il percorso intrapreso non fu affatto semplice, davanti a loro giorni di caldo torrido e altri di gelo che si insinua fin dentro alle ossa, tempeste di vento e temporali che terrorizzano anche i più impavidi. La più grande difficoltà però è nel gestire le razioni di cibo e acqua, non cedere ai morsi della fame e della sete, perché avrebbe significato, nella migliore delle ipotesi, arrivare al giorno successivo digiuni e disidratati, nella peggiore non superare la notte. Lungo il percorso hanno incontrato spesso altri camminatori, ben organizzati, con furgoncini che li seguivano anche per brevi tratti, si scambiano saluti, si domandano fin dove cammineranno. Quando Raynor e Moth dicono che vogliono arrivare a Land’s End (metà del loro vero percorso, ma si vergognano a confessarlo), qualcuno risponde con invidia: “come fate ad avere così tanto tempo libero? Vorrei poterlo avere anche io”. Ryanor stufa di dover sempre mentire, all’ennesima domanda sul loro cammino, confessa che sono dei senzatetto, che hanno perso la loro casa e non hanno alcun altro posto dove andare. E qui testano per la prima volta il disgusto che la parola “senzatetto” genera nelle persone e l’emarginazione e la solitudine che ne scaturiscono. 

I senzatetto, nella percezione comune, vengono subito associati all’alcolismo, alla tossicodipendenza o a problemi di salute mentale, e questo genera paura. C’è un capitolo dedicato ai senzatetto censiti in Gran Betagna, che non corrispondono assolutamente al vero numero dei senzatetto che vivono e dormono lungo le strade, sotto ai ponti, in tenda, ospiti dei famigliari o in case di accoglienza. Nel 2013 erano oltre 230 mila i nuclei famigliari a non avere un proprio tetto sulla testa.

Senza minimamente sospettarlo, il cammino intrapreso senza alcun calcolo rappresenterà per loro la cura; anche se bistrattati dagli elementi, affamati, stanchi, infreddoliti, potevano essere e sentirsi liberi. Liberi di camminare o no, di fermarci o no. Liberi di non accamparci presso amici o parenti, di essere un peso, di diventare una scocciatura, di consumare un’amicizia riducendola a mera tolleranza. Lì, distesi sotto al cielo, su una scogliera, ad ascoltare il rumore del mare, a farsi il bagno all’alba o al tramonto, avvistando delfini avvicinarsi a riva quasi fino ai piedi, potevano ancora avere il controllo delle loro vite, sui loro risultati, sul loro destino. Riuscivo a sentire il cielo, la terra, l’acqua e godevo di essere parte degli elementi senza che un baratro di dolore mi si aprisse dentro al pensiero che avevamo perso il nostro posto all’interno di tutto questo. Ero una parte del tutto. Potevo stare nel vento ed ero il vento, la pioggia, il mare; tutto era me, e io ero un niente dentro al tutto.

E mentre Raynor iniziava ad avvertire già il vuoto di una probabile perdita del marito a causa della malattia, Moth, al contrario, rinasceva. Non si era mai sentito così bene; dal non essere in grado di alzarsi dal letto, in poche settimane tornava a essere forte, con il pieno controllo degli arti. Questo non dovrebbe essere possibile. Nel brugo avvolto nella nebbia, si abbracciano, saltano, ridono, si baciano, gridano. E come gli alberi battuti dal vento lungo il loro cammino, Raynor e Moth vengono riplasmati dagli elementi in una nuova forma capace di affrontare qualsiasi tempesta che poteva abbattersi sul mare del loro luminoso futuro.

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