“La cercatrice di funghi” di Viktorie Hanišová

Ogni mattina di buonora mi infilo nell’ingresso gli scarponi in pelle di mio padre, agguanto il cestino e lo strofinaccio e prendo il sentiero.

Rileggere questo passo, che si trova nelle primissime pagine, dopo aver finito il libro, mi ha fatto comprendere la circolarità del romanzo, il compimento che trova il suo attracco nell’ultima frase. È sorprendente come io lo abbia inteso appieno solamente adesso, dopo aver preso “La cercatrice di funghi” dalla pila dei libri in attesa di essere trasformati in miei pensieri e aver raggiunto le pagine dove avevo fatto delle orecchie e tracciato dei segni con la matita.

Ho notato, questa volta, la parola “sentiero” scritta in corsivo e inevitabilmente il suo significato si è gonfiato diventando metafora del percorso introspettivo della protagonista, la giovane Sára. L’attesa infinita dell’alba, dopo notti insonni, per uscire in cerca dei funghi, seguendo il sentiero che conosce a memoria e che è anche la sua memoria. La terra calpestata dai piedi che indossano gli scarponi in pelle del padre. Due righe trasformatesi nel tormento di Sára, rappresentative del cuore del romanzo, incastonato tra le ife di un micelio.

Il dolore sopraggiunge in continuazione. Ogni mattina, come a un rito di punizione, lei indossa gli scarponi della persona che ha distrutto la sua vita, spezzato la sua innocenza, violentato corpo e spirito. Va a fare l’unica cosa che sa fare, quella che le ha insegnato il papà quando era ancora una bambina pronta ad abbracciare la meraviglia: raccogliere i funghi, riconoscerli e chiamarli con il loro nome scientifico. Poi i rovi hanno scarnificato l’abbraccio facendo penetrare il buio della notte, e non ha più imparato nulla. Il corpo ha smesso di riconoscere le carezze e il suo spirito di evolversi.

Imparai a spegnere il corpo. Diventò un involucro, una zavorra. Se ce la mettevo tutta, riuscivo a uscirne per un attimo. Era sepolto nella terra profonda, mentre io mi libravo al di sopra. Se fossi stata in grado, non ci sarei più rientrata.

Dopo un periodo trascorso in un ospedale psichiatrico, va a vivere nel casolare di famiglia, nella Selva Boema, ormai disabitato, quasi in rovina. È il luogo del delitto e non ci tornava da quando era bambina. Ha venticinque anni nella storia, quando la seguiamo tra gli alberi, nel bosco, tra un pendio e l’altro, a raccogliere boleti dorati, mazze di tamburo, gallinacci. I funghi sono il suo sostentamento, la sua fonte di guadagno, la sua ossessione. Raccoglie funghi per sopravvivere, li porta a casa, i cesti pieni, li cucina, li baratta per del formaggio, li vende per due soldi all’osteria della zona, L’Ovolaccio. È completamente sola, il padre è morto, così come la madre, e Sára non è nemmeno riuscita a sussurrarle sulla bara un “ti perdono“; i fratelli non la tollerano perché la considerano l’origine di tutti i mali della famiglia.

Il racconto in prima persona di Sára è molto intimo, delicato. Non ci sono colpi di scena, sappiamo da subito che le cose non vanno bene, non si attendono ulteriori sviluppi, magari catartici. Ci narra del bosco, dei suoi anfratti bui e degli scorci di luce, dei funghi che conosce benissimo e, da esperta micologa, un po’ li fa conoscere anche a noi. Queste, immerse sotto le chiome degli alberi, sono le pagine dove Sára respira un po’, nel bosco diventato suo rifugio e sua apparente salvezza.

“La cercatrice di funghi” di Viktorie Hanišová è un romanzo che ho molto amato, facendosi apprezzare per la sua scrittura mai commiserata, per la fusione del racconto intimo al mondo naturale, quello dei funghi, e per la sua capacità di raccontare, non solo il corpo fruttifero di una famiglia, quello visibile al mondo esterno, ma soprattutto la sottotrama fitta del micelio.

Da segnalare, poiché degna di nota, è la copertina che ha un’immagine di forte impatto simbolico: il corpo fruttifero di un Phallus impudicus, il cui nome scientifico toglie ogni dubbio, e un Polyclinum constellatum, essere marino dotato di un foro centrale; entrambi disposti sulla stessa traiettoria, pronti a congiungersi in un atto sessuale.

Total
0
Shares
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Prev
“Un amore senza fine” di Scott Spencer

“Un amore senza fine” di Scott Spencer

Quando avevo diciassette anni e obbedivo totalmente ai più solleciti comandi del

Next
“Io canto e la montagna balla” di Irene Solà

“Io canto e la montagna balla” di Irene Solà

Arrivammo con le pance piene