“La fortuna” di Valeria Parrella

Comunque io la Fortuna la aspettavo e, se non mi addormentavo prima, me ne uscivo veloce dal letto e le andavo ad allentare, quelle imposte.

In un meraviglioso cortile dell’hotel NH Lingotto di Torino, circondati da camelie rosse, ho avuto la possibilità grazie a Feltrinelli Editore di trascorre del tempo con Valeria Parrella, insieme ad altri blogger. C’è stato un po’ di imbarazzo iniziale, sia da parte di noi lettori che della scrittrice. Ci guardavamo circospetti, ma sono bastate poche battute di Valeria Parrella – ha un carisma fuori dal comune – per dissipare ogni forma di tensione.

Ho conosciuto Valeria Parrella come scrittrice lo scorso anno perché era in cinquina al Premio Strega, con il suo romanzo “Almarina”, ma non avevo mai letto nulla di lei. In televisione ho seguito alcune interviste e sono sempre rimasto colpito dal suo modo di scegliere con cura le parole, dai pensieri espressi, dalla simpatia scandita da una godibile cadenza napoletana. Non mi ha mai trasmesso quel timore reverenziale che solitamente comunicano altri scrittori o scrittrici che pubblicano con i colossi dell’editoria.

“La fortuna” l’ho letto in un viaggio in treno, da Roma a Torino, per il Salone del Libro. L’ho terminato un bel po’ prima di arrivare a destinazione – sono circa 140 pagine -, con gli occhi lucidi e un’emozione ben visibile. Ho fatto pieghe e sottolineato diversi passaggi. È stato tutto inaspettato; la bellezza emersa, non ero preparato per accoglierla e mi ha sorpreso.

La storia è molto semplice, una trama che può riflettersi in tutti i lettori, perché riguarda l’inseguire i propri sogni, anche a costo di deludere le aspettative dei propri genitori. La particolarità del romanzo è l’ambientazione nella città di Pompei, in un arco temporale che va dal 62 d.C. all’anno della più nota eruzione del Vesuvio, il 79 d.C., corrispondente anche alla vita del protagonista, Lucio.

Nonostante vengano ripresi fatti storici, Valeria Parrella, durante l’incontro, ha affermato che “La fortuna” non è un romanzo storico e che il suo obiettivo non era quello di ricreare storicamente i pompeiani, Pompei e la famosa eruzione. Lucio non è un personaggio realmente esistito, ha potuto modellarlo come voleva, così come i suoi genitori e altri personaggi secondari, ma ha comunque inserito, probabilmente per dare al libro uno spessore anche storico e una verità concreta, alcune personalità realmente esistite, come ad esempio Plinio il Vecchio o Cesare.

La vita di Lucio è mossa da un forte desiderio: le navi. E dalla fascinazione per il mare. Lui non vuole soltanto diventare il comandante di una nave, vuole occuparsi di una nave, viverla, curarla. Questa sua aspirazione però va contro ogni volere dei genitori, e soprattutto contro la sua posizione sociale. Il padre è un proconsole romano, il figlio ha un destino segnato nella politica, e per questo motivo viene mandato a Roma per frequentare la scuola di retorica di Quintiliano. Il suo sogno è meno di quello che gli si potrebbe offrire.

Quando Quintiliano ci spiegava come costruire in ordine un discorso ci diceva che per funzionare deve essere come il corpo umano: […] Invece io immaginavo la mia nave. L’esordio era la chiglia […] Per la narrazione costruivo una buona deriva accresciuta. Al momento dell’argomentazione poggiavo le tavole del ponte e le inchiodavo sui bagli. E per conclusione ci aggiungevo un rostro”.

Uno degli occhi di Lucio non è allineato all’altro, è rivolto verso il basso, non funziona come dovrebbe. Se ne accorge un giorno quando la mamma da una cassettina tira fuori un oggetto dove specchiarsi. Avverte il suo sogno di guidare una nave fiondarsi dietro a una coltre scura di impossibilità ed è per questo che cerca storie di uomini che ce l’hanno fatta, per trovare un motivo per vivere. Grazie a un suo amico, Cassio, di nascosto dai genitori, conosce un marinaio cieco, salpa con lui per capire come si fa, a cavalcare le onde vedendo poco, o non vedendo affatto.

Sente per la prima volta che un limite è un limite solo se uno lo sente come un limite, sennò non è niente. È la sua prima volta su una nave, ci sarà poi una seconda, quella che sbarca a Ostia, per andare alla scuola di retorica di Quintiliano. E poi una terza… la più importante, mentre la Montagna sputa fuoco, vomita lava, per distruggere, uccidere e sotterrare.

La formazione di Lucio passa anche attraverso l’amore, che prova per Aulo. Sono tra le pagine più dolci. L’amore, un inizio, quello che serve per respirare, che ti fa avvampare, ti fa dimenticare il resto per ricominciare ogni volta. Il pensiero a cui ritornare per riempire la lontananza.

Sono dappertutto perché per dargli verità devo stare per forza dappertutto. Ogni volta devo passare attraverso me. Sono Lucio. Sono Aulo. Sono pure Lucio quando sta con Aulo. Sono proprio dappertutto, tranne in Plinio il Vecchio, non mi ci rivedo proprio!” ha detto Valeria Parrella con voce appassionata, facendoci sentire anche noi Lucio, Aulo e tutti gli altri. “C’è mia madre nella madre di Lucio, ma anche io mamma. Sono anche Lucio e Lucio figlio”. È il potere della letteratura, il ritrovarsi, il capirsi, il curarsi, l’immergersi in infiniti mondi, in tanti frammenti di sé.

La letteratura stessa mi ha sempre aiutata. Quando ho avuto delle cose proprio drammatiche della mia vita, o ho letto oppure ho scritto. Non mi sono messa a sentire musica, parlato con le amiche al telefono, pianto. No, io o ho letto o ho scritto, perché ho sentito che era l’unico modo per andarmene da quelle cose. Come si passa il tempo della paura, quello in cui non puoi fare più niente? Io l’ho sempre passato o scrivendo o leggendo”.

Riuscire a non commuoversi è stato difficile, perché ho sentito una paura e una cura comuni. Le avevo chiesto se anche lei, per sentire meno paura si affidasse alla letteratura, affinché si facesse tramite dell’indecifrabile. Nel romanzo, Lucio, soltanto d’avanti alla maestosità della Natura e dell’incognito – l’eruzione del Vesuvio che non si sapeva fosse un vulcano – capisce a cosa gli fosse servita la scuola di retorica di Quintiliano, studiare le vite di tutti quei filosofi, i diari di Cesare, il greco. Le vite altrui servono a orientarci quando non si vedono le stelle. Ha ricordato il De rerum natura che aveva dovuto imparare a memoria, in cui racconta dell’Etna e delle sue colate laviche, quindi un qualcosa simile a quello che stava accadendo davanti ai suoi occhi. Era un qualcosa già successo, che già è stato cantato, e questo ci fa meno soli.

Le parole di Valeria Parrella hanno toccato i punti fondamentali della formazione di Lucio, che sono poi universali. Il rapporto con la famiglia, le aspettative, lo studio, i desideri, l’amore e, inevitabilmente, la morte. È una storia senza tempo che la scrittrice ha deciso di calare nella perduta Pompei, un luogo della sua memoria. La mamma lavorava agli scavi, quindi era un posto da lei molto frequentato. Durante la scrittura del romanzo, però, Valeria Parrella non è tornata lì, per ripercorrere le vecchie strade. La sua ricostruzione è stata intima, preservata al ricordo di allora, e soltanto quando ne ha sentito la necessità ha chiesto ad altri occhi di guardare al posto suo.

Mi sono commosso, durante la lettura, e mentre lei parlava davanti a me, e ancora una volta sceglieva con cura le parole. Con la storia di Lucio è stata lei a farsi tramite del mio indecifrabile, per farmi sentire meno paura, meno solo. Per confermare che la letteratura è un firmamento, un mucchio di stelle che illumina le nostre notti buie.

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