Quando lessi per la prima volta Walden di Thoreau qualcosa in me trovò la giusta collocazione. Mi sentivo complesso, composto da tante parti ammucchiate senza alcuna logica di ordine. E questa complessità non aveva nulla a che fare con “sono vasto, contengo moltitudini” di Walt Whitman. Le mie moltitudini erano allo sbaraglio e questa confusione si riversava all’esterno, nel mio modo di approcciarmi alla vita e nel vivere le emozioni, nel rapporto con i miei amici, con l’amore e la famiglia. Tutto era inutilmente complicato. Trovavo difficoltà ad arrivare al nocciolo di me, ero ricoperto da sovrastrutture, da lamiere di amianto che mi avvelenavano senza che me ne accorgessi. Questo non perché fossi un caso complicato, ma era così che ero stato formato, da mamma e da papà, a loro volta formati dalla società. Io ero il frutto di imposizioni. Se i miei sentimenti e pensieri – o azioni! – nascevano puri, fedeli a me, quando si proiettavano all’esterno erano ormai alla loro infinitesima trasformazione, smussati per essere quelli che altri imponevano.
Henry David Thoreau, soltanto con le sue parole scritte, ha eliminato il superfluo per riportarmi, o almeno per farmici dare uno sguardo, alla parte di me più elementare, quella non più decomponibile. Ed è stata un’esperienza così rivoluzionaria da farmi sentire confortato e incredibilmente sereno. Ora però provo ad abbandonare Thoreau, perché altrimenti scriverei un lungo articolo soltanto su di lui, per giungere finalmente a Edward Carpenter. La connessione però era inevitabile e mi serviva non solo perché Edward Carpenter è considerato il Thoreau britannico, ma anche per il fatto che uno dei saggi contenuti in questa raccolta e che dà il titolo al libro, “Per una vita più semplice”, è a lui dedicato e parte proprio dall’esperienza dello scrittore di Concord sul lago di Walden.
Edward Carpenter nacque a Brighton il 29 agosto 1844 e fu seppellito, all’età di ottantaquattro anni, nella stessa tomba dove giacevano le spoglie dell’uomo che era stato il suo compagno di vita, George Merrill. Carpenter, infatti, era omosessuale. Ne prese atto ai tempi dell’università, anche se non riuscì a vivere a pieno la propria identità sessuale, o almeno inizialmente, infatti in seguito decise di prendere i voti, più per convenzione che per convinzione. Voti che infranse dopo qualche anno per andare a insegnare astronomia, storia e musica all’università di Leeds. La svolta nella sua vita però avvenne alla morte del padre, quando con l’eredità accumulata decise di acquistare una fattoria a Millthorpe, nel Derbyshire, per concentrarsi sulla scrittura e per condurre una vita più semplice e autentica. Carpenter fu pioniere dei diritti degli omosessuali, sostenitore del suffragio femminile e orgoglioso vegetariano, diventando – come indicato nella prefazione del libro – un guru per i tanti giovani che, ogni anno più numerosi, giungevano a fargli visita in una sorta di pellegrinaggio.
“Per una vita più semplice” raccoglie nove saggi, scritti tra il 1883 e il 1887, quando Carpenter era nel pieno della propria esperienza di “ritorno alla terra”. Gran parte del libro ruota attorno al suo ideale di Nazione, assolutamente non capitalista, dove le risorse e la ricchezza sono equamente distribuite, una Nazione in cui ogni essere umano è in grado di vivere degnamente con il proprio lavoro, con una paga proporzionata al bene prodotto, lavorando per le ore strettamente necessarie per procurarsi l’indispensabile per la sussistenza e alcune comodità (Carpenter ha calcolato che sarebbero sufficienti tra le due e le sei ore al giorno, in relazione a se si è soli o si ha un nucleo familiare più consistente). Eppure oggi, ci ritroviamo con uomini e donne obbligati a regalare cinque o sei ore al giorno del proprio tempo al capitalista senza ottenere nulla in cambio, e che nonostante questo vengono considerati liberi. Pur essendo un grande rivoluzionario, Carpenter non era un insurrezionalista, uno che andava a spada tratta contro qualsiasi cosa prodotta dallo Stato o da qualsiasi altra autorità. Infatti, pur ritenendo la Legge come una costrizione, una limitazione della vita sociale, essa non può mai essere considerata malevola o inutile. È il guscio che protegge e rafforza il germoglio, è il carapace del granchio che dà forma e stabilità al corpo della creatura, ma deve anche cedere quando è tempo che il corpo si espanda. “Sii fedele a te stesso” dice Carpenter, ma aggiunge anche che le nostre concezioni morali, anche le più radicate, appartengono al loro tempo e prima o poi dovranno cedere il passo.
Quanto ho ardentemente desiderato che quelle parole che stavo leggendo, fossero parole di chi governa adesso il nostro Paese, uomini e donne ancorati a un passato che non ammette una evoluzione umana, una dignità umana, e l’unica prospettiva futura che hanno è quella di alimentare il già ingordo e gonfio capitalismo. Edward Carpenter esprime il suo pensiero sulla classe ricca, senza farne un vero e proprio attacco (anche se alla fine il colpo va a segno), dicendo che quando passeggia nelle periferie o in campagna e vede una “villa da sogno”, pensa: «Qui qualcuno sta costruendo la sua prigione». In posti simili, continua, si può fare solo qualcosa di superfluo e inutile. Gli oggetti accumulati al loro interno sono inutili e necessitano di personale di servizio per pulirli, il mantenimento della casa stessa ha bisogno di persone su persone; persone pagate per un lavoro che non ha una vera e propria utilità. Gli abitanti di quelle ville non sono liberi, ma prigionieri di quattro mura e delle loro regole. I cuochi dei ricchi ogni giorno iniziano a preparare il pranzo dal mattino, piatti articolati che necessitano di forza lavoro e di spreco di soldi; il valore di quel pranzo equivale ai pranzi di una settimana di una famiglia. I soldi che potrebbero essere risparmiati da tutti questi sprechi arricchirebbero enormemente la Nazione a favore di tutte le classi sociali.
Secondo Carpenter, nel saggio che dà il titolo al libro, il principale interrogativo pratico dell’esistenza è come poter vivere riducendo al minimo la fatica e gli sforzi. Quando si trasferì nella fattoria di Millthorpe, rimase sorpreso di quanto poco costasse il suo sostentamento, in termini di fatica e denaro e si rese conto di quanto la vita che conduceva prima fosse fatta di mero spreco, qualcosa di inadattabile a qualsiasi fine utile. Col tempo capì anche che le limitazioni di una vita in campagna sono in realtà vantaggiose. Ad esempio si adattò a una dieta più semplice, guadagnandone in termini di efficienza sia mentale che fisica. Tutti dovrebbero avere la possibilità di avere un orto, anche molto piccolo, che permetta nelle ore oltre il lavoro di coltivare alcuni alimenti, per evitare di acquistarne. Lo stile di vita attuale (e Carpenter si riferisce alla fine dell’800!) è incentrato sullo spreco, siamo giunti a considerare necessarie tante cose – che si tratti di cibo, vestiti, mobili o altro, sono tutte cose ormai incapaci di fornirci vantaggi a fronte della mole di lavoro necessaria per procurarcele.
È tutto in eccesso, continua Carpenter, nelle sale da ballo ci sono così tante persone che ballare diventa impossibile. Nei ristoranti si mangia troppo, si arriva fino a dodici portate, così tanto cibo che è impossibile mangiarlo tutto. E si pubblicano così tanti libri che leggerli è impossibile. Un tale eccesso di benessere inutilizzato o usato male. Una vita più semplice ha così tanti vantaggi che non ce ne rendiamo conto. Soltanto scegliendo di vivere in maniera semplice, modesta – e questo è rivolto soprattutto a chi è in alto e ha il potere di fare le leggi – si ha la possibilità di conoscere davvero gli altri, diventarne amici, e di comprenderne i reali bisogni.
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Sono rimasta molto colpita dalle parole dell’autore, sebbene ritenga opportuna la partecipazione del lavoratore all’impresa, questa il più delle volte è impraticabile, perlomeno lo è su larga scala. La parte che mi rimarrà dentro perché la condivido è quella sulla riduzione dei bisogni e degli orpelli inutili.
Grande lettura.