“Le cattive” di Camila Sosa Villada

Nella distribuzione dei doni, ogni trans riceve il potere della trasparenza e l’arte di abbagliare.

Le trans sono abituate a tenere il capo calato, a camminare svelte, quasi al limite del trotto. Devono essere trasparenti, fasci di luce improvvisa, un’apparizione. Tentano di vivere nella trasparenza, nell’invisibilità, perché quel silenzio visivo rappresenta per loro la felicità quotidiana. I momenti di riposo. Se si fanno vedere, invece, diventano come tramonti senza occhiali da sole, il loro fulgore acceca, offusca chi le guarda e li spaventa.

Cristian ha iniziato a deludere la madre fin da quando era bambino, un bambino effeminato che non riusciva a guarire nemmeno con le cinghiate, le punizioni, le umiliazioni. Lui rappresentava l’incubo di avere un figlio finocchio, per dipiù un finocchio diventato trans. L’orrore peggiore di ogni cosa. Cristian però non può fare a meno di diventare donna; quell’infanzia violenta, quel padre che scagliava addosso tutto, quella bestia, gli hanno impedito di poter essere un uomo in questo mondo.

Osserva la madre che si trucca davanti allo specchio, incantandosi alla visione della trasformazione del suo volto in quello di una bella donna. La guarda mentre si veste, si mette gli orecchini e le scarpe alte, avvolgendosi un foulard intorno al collo, e la sera la spia mentre si strucca e si spalma la crema. La guarda e impara, così quando resta da sola, sì sola, perché Cristian è ormai Camila, ripete quei rituali. Si trucca e riflette il suo nuovo viso nello specchio e si desidera, come mai nessuno l’ha desiderata.

«Sai come ti troveremo io e tua madre un giorno o l’altro? Buttato in un fosso, con l’AIDS, con la sifilide, con la gonorrea, e chissà con quali altre schifezze ti troveremo io e tua madre un giorno o l’altro. Pensaci bene, usa la testa: a te, così conciato, non ti vorrà mai bene nessuno»

Non ti vorrà mai bene nessuno. Va bene, lei lo accetta, perché ormai possiede la magia di trasformarsi in se stessa. Può smettere di essere Cristian per trasformarsi in Camila. Nel farlo però, guardandosi allo specchio, vede anche l’ombra della puttana che diventerà. Non esiste alternativa, non esiste scelta, non si conoscono le possibilità, non per una reietta senza soldi come lei. Quel corpo mutevole sarà costretto a diventare una cattedrale di nulla, insensibile a causa delle violenze che saranno perpetrare su di esso. Ma il corpo si adatta. È come un liquido capace di adattarsi a ogni forma. I muscoli si induriscono oppure si ingrassa, ci si blinda. Non è possibile fare la prostituta senza prima procedere a un’anestesia totale.

Ha vent’anni quando si affaccia per la prima volta al Parco Sarmiento, a Córdoba, la zona più buia della città. Qui ci sono le altre come lei. Creature quasi mitologiche, notturne, che repellono la luce. I raggi del sole debilitano, rivelano le indiscrezioni della loro pelle, l’ombra della barba, i tratti indomabili degli uomini che non sono. Sono costrette all’oscurità, perché alla luce del giorno rischiano insulti e botte, di essere bruciate vive.

Qui “Le cattive” prendono vita, sui loro tacchi alti, avvolte da lustrini, con i rossetti sbavati, le minigonne, gli slip strettissimi, le parrucche ispide e le tette gonfie di olio motore. Rendono l’atmosfera magica, queste creature immaginifiche.

Nel buio di quelle notti Camila trova finalmente la sua vera madre, Zia Encarna. La madre di loro orfane, santa patrona, la madre che hanno cercato instancabilmente, una madre per quelle notti di rimorsi, una madre che le insegnasse a non soffrire. Trova una famiglia che l’accetta, che la ama incondizionatamente, che invece di dirle «finirai buttato in un fosso» le urla «hai diritto di essere felice. Esiste anche la possibilità di essere felici». Il dolore di una è il dolore di tutte. Come dovrebbe essere in una famiglia.

Poi chiesero anche a me che cosa desideravo e io dissi nulla, allora mi dissero di scegliere la cosa che sognavo di più e io non seppi cosa dire. Avere la forza, pensai, ma mi vergognavo a confessarlo.

Camila Sosa Villada è una donna trans e nel suo romanzo “Le cattive” dà voce a lei e a tutte le altre, per farle riemergere da quell’inferno di cui nessuno scrive, per farle brillare con i loro corpi disprezzati e amati, per vomitare le loro storie, per emanciparle. È un romanzo potente, tagliente, politico, scritto con una penna intrisa di quel realismo magico tipico degli scrittori sudamericani. “Le cattive” è auto fiction, un’illusione, una ragnatela di realtà e di finzione in cui è difficile delinearne il limite. È trasformazione del proprio corpo, non in qualcosa oltre da sé, ma in se stessi. È salvezza su un paio di tacchi alti.

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