“Le Cronache dell’Acero e del Ciliegio” di Camille Monceaux

Quando abitavo con i miei e guardavo i film seduto sul divano con papà, spesso accadeva che lui mettesse qualche vecchia VHS di Bruce Lee o Karate Kid, o comunque film di arti marziali e samurai. Che fossero film ambientai in Cina, in Giappone o in Corea non faceva differenza. Importante erano i combattimenti e la disciplina dell’addestramento, il rapporto maestro e discepolo. Ciò che papà cercava, e in proiezione io, erano la formazione dell’allievo fino alla sua maturità, l’eventuale superamento del maestro e la lezione morale che scaturiva dalle difficoltà incontrate lungo la via.

Il mio inconscio, probabilmente, mi ha spinto ad acquistare per questo motivo “Le Cronache dell’Acero e del Ciliegio” di Camille Monceaux. Che poi, la bellezza del volume sarebbe bastata per un acquisto precipitoso. Ma riflettendoci, l’azzardo c’è stato in ogni caso perché questo è il primo di una tetralogia: l’inizio di un percorso che non sai se proseguirai e il cui finale sarà atteso o mai conosciuto.

Come nella buona tradizione orientale dell’inizio del rapporto maestro e discepolo, c’è l’arrivo improvviso e solitamente tragico di quest’ultimo alla porta del maestro. Ichirō è il protagonista del romanzo, abbandonato, in un guscio di biwa (uno strumento musicale a corde) e con appeso al collo un ciondolo a forma di foglia di acero, nel giardino di un severo maestro di spada, un samurai.

Siamo sul finire del XVI secolo, il nobile samurai, a seguito della presa di potere da parte del clan Tokugawa, famosi per la loro politica di oppressione, aveva deciso di ritirarsi a vivere sui monti insieme a una vecchia governante, la signora Oba. Loro due, in questo scenario idilliaco fatto di piante e templi, si prendono cura di Ichirō e gli insegnano l’una la tenerezza e l’amore verso la Natura e il creato in generale, l’altro a padroneggiare la spada e il rigore della disciplina.

Crescendo, Ichirō inizia a porsi domande, Chi sono i suoi veri genitori? Cosa simboleggia quel ciondolo a forma di foglia di acero?, e ad avere nuovi bisogni, tra cui quello di voler socializzare, andare giù in paese e vedere il mondo. Questo però gli è severamente proibito; ha sempre vissuto recluso tra le mura di casa e i limiti imposti dai confini. Il maestro non deve assolutamente essere scoperto; è considerato un nemico della Patria da quando aveva combattuto contro i Tokugawa. Rischia la morte.

Tutte le storie degne di essere considerate tali hanno il momento in cui l’idillio termina… e questa storia non è da meno. Ichirō deve affrontare una nuova solitudine, un nuovo abbandono, ma questa volta non ci sarà nessuno a prendersi cura di lui. Il suo destino adesso dipende soltanto da se stesso e dalle lezioni apprese dal maestro e dalla nutrice Oba.

Edo è la città in cui trova rifugio. Vive inizialmente come un gatto, nascosto sui tetti dei templi o nei vicoli bui, in cerca di cibo e di riparo, per poi trovare finalmente un piccolo lavoretto in una bettola dove, di notte e in gran segreto, affascinanti donne si trasformano in attrici del proibito teatro Kabuki. Edo è anche la città dove incontra Hiinahime, la vera protagonista femminile del romanzo. Personaggio di un fascino unico, costretta a vivere in un sontuoso palazzo. È estremamente sola, reclusa in una vita tragica. Non ha mai visto il suo viso riflesso in uno specchio, ma anche se ci fossero stati specchi nella sua casa non avrebbe comunque potuto farlo. Sul volto è adagiata una maschera del teatro Nō che non rimuove nemmeno quando va a dormire. Hiinahime in Ichirō trova il valore dell’amicizia, dell’amore, ma soprattutto della libertà.

“Le Cronache dell’Acero e del Ciliegio” di Camille Monceaux è un romanzo appassionante, scritto con grazia, con tanta cura per i dettagli e per le descrizioni che generano scenari di un Giappone magico. Il contesto storico seppur accennato ricrea perfettamente l’atmosfera e porta a galla usi e costumi dell’epoca. È molto bello il connubio trovato tra l’arte della spada e l’arte del teatro, che sia il Kabuki o il Nō. La scrittura è fluida, evocativa e immersiva, caratterizzata da quella lentezza tipica degli scrittori giapponesi (pur non essendo la scrittrice giapponese), lentezza che, ci tengo a specificare, non è un aspetto negativo, ma una potenza in più. Non vedo l’ora che venga pubblicato il secondo volume.

Total
0
Shares
Comments 2
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Prev
“Le cattive” di Camila Sosa Villada

“Le cattive” di Camila Sosa Villada

Nella distribuzione dei doni, ogni trans riceve il potere della trasparenza e

Next
“In giardino non si è mai soli. Diario di un giardiniere curioso” di Paolo Pejrone

“In giardino non si è mai soli. Diario di un giardiniere curioso” di Paolo Pejrone

L’unica attività che, in quest’anno faticoso, ha instillato in me un