«Sì, certamente, se domani è bello» disse la signora Ramsay. «Ma ti dovrai svegliare con l’allodola» aggiunse.
È così che inizia “Al faro” di Virginia Woolf, con un lascito di speranza della signora Ramsay verso il figlio James; si andrà al faro se il tempo lo permetterà. Basta questo per far nascere in James una felicità paradisiaca che viene, però, immediatamente svenata dal padre: «non sarà bello». Oh, se James avesse avuto un’accetta, un attizzatoio, per squartare il petto del padre, l’avrebbe fatto.
Ho letto “Al faro” nella traduzione di Nadia Fusini, poiché ero sicuro della sua maestria e professionalità e per la sua postfazione che come una lanterna al buio ha illuminato la comprensione di un libro che ha il suono delle onde e una profondità talvolta difficile da raggiungere. Ho apprezzato tantissimo la scelta di tradurre il titolo “To the lighthouse” in “Al faro” e non nel classico “Gita al faro” perché, come la stessa traduttrice afferma, il “to” è preposizione che in inglese non indica solamente un moto a luogo, ma è anche un dativo, il polo di un’offerta, di un dono.
Virginia Woolf definisce i suoi libri come delle elegie, delle confessioni autobiografiche, degli sfoghi sentimentali; il termine “romanzo” non calza comodamente. “Al faro” contiene i ricordi della sua infanzia, delle estati trascorse a St. Ives, in Cornovaglia. La madre ritorna in vita nella signora Ramsay ed è la protagonista assoluta del libro, anche quando scomparirà prematuramente, come d’altronde accaduto nella vita vera. Virginia Woolf fa un ritratto della madre che ha del miracoloso; sua sorella quando leggerà il romanzo sentirà come se l’avesse incontrata di nuovo. Eppure aveva solo tredici anni quando lasciò Virginia e anche per lei risulta strano essere stata capace di saperla delineare alla perfezione; risponde con una lettera alla sorella dicendole che probabilmente si elabora a partire da un embrione.
Il libro è costituito da tre parti: “La finestra”, “Il tempo che passa” e “Il faro”. Ognuna di queste è ambientata nella casa delle vacanze della famiglia Ramsay, nelle isole Ebridi, e raccolgono una fetta temporale di dieci anni. Sempre davanti agli occhi, ma intoccabile, c’è il faro. Oltre ai Ramsay, la casa viene vissuta anche da altri ospiti, tra cui Lily Briscoe, una giovane pittrice intenta a dipingere un ritratto della signora Ramsay e che incarna l’autrice stessa.
Ogni parte cede la vita e la morte a quella successiva, e il passaggio avviene con una scrittura che rende i luoghi immateriali, li trasforma in luoghi dell’anima, perché a compiersi non è una trama, ma un’emozione, una memoria. Si odono in lontananza le onde che arrivano infrangendosi schiumose, invadono, per poi ritornare al mare. È uno smottamento interiore.
La casa meravigliosa, ampia, aperta, soffiata da venti che sanno di rose e altri fiori del giardino, vive grazie a chi la abita. “La finestra” è infanzia, vita e contrasti. “Il tempo che passa” spegne tutte le luci, è decadenza, un’onda gravida di tempesta che chiama a sé la vita per divorarla.
Spente tutte le luci, tramontata la luna, con la pioggia che batteva leggera sul tetto, cominciò un diluvio di tenebra immensa.
E quella speranza, dono della signora Ramsay, «Sì, certamente, se domani è bello», vive nella morte e richiede un compimento, una fine, anche se sradicata, anche se dopo dieci anni, nella parte finale “Il faro”.
Non si può raccontare “Al faro” di Virginia Woolf, sono arrivato a questa conclusione nel tentare di scriverne qualcosa. Lo si può solo leggere, lasciarsi impressionare dal suono e la musicalità che hanno le parole, interiorizzarle, e abbandonarsi all’invasione della memoria e alla luce ipnotizzante del faro.
Ascoltò, era tutto quieto, intorno: i grilli non cantavano, i ragazzi si facevano il bagno, c’era soltanto il rumore del mare. Smise di lavorare a maglia, tenne il lungo calzerotto marrone ciondolante tra le mani per un attimo. Vide di nuovo la luce.
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Grazie, sembra così leggero e profondo allo stesso tempo , che non ci resta altro che comprarlo e leggerlo.