“Elogio delle erbacce” di Richard Mabey

«Maledetto sia il suolo per colpa tua» s’infuria Dio, «con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita; spine e cardi produrrà per te; e mangerai le erbe dei campi; con il sudore della fronte mangerai il pane finché non tornerai alla terra»

Le erbacce sono quelle piante infestanti che crescono nel “posto sbagliato”, dove si preferirebbe ne crescessero altre, o dove non se ne vorrebbero affatto. A loro è stato affibbiato questo nome “erbacce”, o anche “malerbe”, per un giudizio morale negativo del loro comportamento, piante parassite con la brutta fama di succhiare l’energia di altre piante. Delle vere e proprie vampire vegetali. Così cattive che a Houston la legislazione della città ha reso illegale le erbacce e la boscaglia.

Eppure per secoli le erbacce sono state nostre amiche. Erano le piante più diffuse e conosciute, quindi più accessibili; erano la prima risorsa a cui si ricorreva ogni volta che serviva del materiale vegetale. Le erbacce sono state le prime verdure, le prime medicine e le prime tinture. Richard Mabey, uno dei più grandi nature writer, ridona finalmente l’importanza che a loro spetta facendone un vero e proprio elogio, appunto “Elogio delle erbacce”. Una tesi difensiva, un invito a considerare queste piante fuorilegge per quello che sono.

Lo zampino dell’essere umano nel capovolgere lo stato naturale è ormai non più una sorpresa, ma un dato di fatto; a sconvolgere gli ecosistemi ci ha pensato lui. Così come è sua la colpa della diffusione delle erbacce in habitat non nativi, trasformandoli in veri flagelli, lontani dalle mandibole degli insetti e dalle malattie che le tengono sotto controllo.

Tra il 1964 e il 1971 gli Stati Uniti fecero piovere sul Vietnam dodici milioni di tonnellate di agente arancio, una mistura di erbicidi fenossiacetici, diossine e trementina, per defoliare intere foreste pluviali, in modo che i vietcong non avessero dove nascondersi. Al posto della foresta è apparso il cogon, prima tenuto a bada dagli alberi stessi, una pianta tenace che ha preso il sopravvento nel paesaggio e che è impossibile da controllare.

Furono sempre gli americani che introdussero nel loro paese una pianta rampicante giapponese, inizialmente per scopi ornamentali poi coltivata come foraggio per il bestiame, avendo appurato che era di enorme gradimento. Questa pianta è il kudzu, così virulento nella sua crescita che negli anni ’40 gli USA dovettero bandirla, ma ormai era ovunque e creava problemi enormi coprendo edifici, tralicci, alberi e soffocando interi boschi.

Il paese più duramente colpito è però l’Australia con oltre duemilacinquecento specie immigrate. Le erbacce, questi “invasori alieni”, sono considerate la maggiore minaccia alla biodiversità dopo il cambiamento climatico e la scomparsa degli habitat. Stanno tra l’altro standardizzando il mondo vegetale sul pianeta Terra; le infestanti più comuni delle città europee sono identiche a quelle australiane e nordamericane; passeggiare per campi italiani è diventato come passeggiare per campi di un continente lontanissimo da noi.

Raccontare le erbacce è, in certi versi, raccontare la storia umana, dagli albori, dalla cacciata di Adamo dal Paradiso Terrestre con sul capo la maledizione di Dio, “spine e cardi produrrà per te; e mangerai le erbe dei campi”. Nel Medioevo qualsiasi cosa vivente poteva essere portata in tribunale se si pensava che violasse le leggi divine o i codici sociali; si potevano scomunicare e condannare a morte passeri, insetti e piante. I pii medievali diedero alle erbacce nomi dialettali che le identificavano come piante del diavolo; la camomilla divenne la margherita del diavolo, la belladonna il rabarbaro del diavolo, l’edera il candelabro del diavolo, il ranuncolo l’artiglio del diavolo, e si potrebbe continuare così per almeno una pagina.

Le erbacce raccontano i viaggi degli esploratori, il periodo del colonialismo, le guerre, l’industrializzazione e la deforestazione, lo spianamento di ecosistemi per creare terreni per l’agricoltura intensiva.

Alcune delle erbacce menzionate da Richard Mabey mai avrei pensato che potessero meritare questo appellativo, come ad esempio le pansé (le bellissime viole del pensiero) amate da Shakespeare e citate nel suo “Sogno di una notte di mezza estate”; la mandragora, che godette di gran fortuna durante l’epoca della magia; i papaveri che incendiano di rosso i campi estivi; l’incantevole buddleja che attira sciami di farfalle.

Le erbacce sono piante meravigliose che se rimanessero nei loro habitat naturali salverebbero il pianeta. Sono una sorta di sistema immunitario, organismi che entrano in gioco per riparare i tessuti danneggiati, la terra spogliata della vegetazione che la ricopriva. Hanno esistenze fugaci perché il loro ruolo è quello di riempire gli spazi vuoti della terra, riparare la vegetazione che la natura sconvolge da milioni di anni con le frane, le alluvioni e gli incendi boschivi e che oggi è messa a dura prova dall’aggressività delle colture e da un fortissimo inquinamento. Le erbacce stabilizzano il terreno, proteggono dall’inaridimento, forniscono riparo ad altre piante e danno via al processo che porta all’avvicendamento di sistemi più complessi e più stabili.

Richard Mabey ha scritto un libro incantevole, ipnotico, scorrevole, facendo uso di un delizioso humor tipicamente inglese. È pieno di citazioni, di curiosità, di storie e accenni scientifici; ci sono alle spalle anni di studi e ricerche scientifiche. Tangibile è l’amore di Mabey per il mondo vegetale, soprattutto delle erbacce, questi invasori alieni, malerbe demoniache; parla di loro come se fossero delle persone, ogni pianta raccontata ha una sua storia e un proprio carattere. Dopo l’ultima pagina, ho riposto il libro sul comodino e sono uscito di casa per fare una passeggiata e per conoscere le erbacce mie vicine, scoprendo così di esser circondato da piante magiche utilizzate dalle streghe: verbena, morella e iperico.

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