“L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio” di Haruki Murakami

Eccomi ancora qui, dopo aver letto un altro libro di Murakami, a ripensare insistentemente, per giorni, alle emozioni innestate tra le pagine, a quella malinconia che ti si attacca addosso come a un forte odore, a quell’esistenzialismo così familiare che si arrovella nella testa e percuote lo stomaco. Mi era capitato lo scorso anno con “A Sud del confine a Ovest del Sole” – ancora piantato vivido nei miei ricordi – e ricapita adesso con “L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio”.

Dal mese di luglio del suo secondo anno di università fino al gennaio seguente, Tazaki Tsukuru aveva vissuto con un solo pensiero in testa: morire.

Questo è l’incipit del romanzo che senza alcun antefatto comunica al lettore il pensiero fisso del protagonista, il suo desidero più grande: morire. Murakami ci mette a conoscenza, come la cosa più importante da sapere, che Tazaki Tsukuru non ha più nessun motivo per vivere. Conosciamo subito anche la motivazione, senza dover attendere a lungo, basta girare un paio di pagine. La ragione che aveva scatenato in lui questa forte attrazione per la morte era che i suoi migliori amici, i più intimi, un giorno – dal nulla potremmo dire –, gli hanno annunciato, senza tra l’altro dare la minima spiegazione, che non volevano più vederlo né sentirlo, chiudendo tutti i ponti. Tsukuru prova a chiedere spiegazioni, ma la risposta è «se ci pensi puoi capirlo da solo».

Ho iniziato ad avvertire del malessere proprio qui, non appena ci si bagna i piedi nel bagnasciuga, prima ancora di inoltrarmi lì dove non si tocca. Ho sempre avuto paura che i miei amici potessero abbandonarmi, mettermi da parte, isolarmi, senza darmi una ragione valida per farlo. Anche io come Tazaki Tsukuru sono andato via dal mio paese, per andare a studiare e a lavorare in un’altra città, non Tokyo, ma Roma. E proprio come in questo romanzo, ho lasciato i miei più grandi amici lì dove stavano. Ma la cosa che più ho ritrovato di me è che mi consideravo incolore come Tsukuru pensava di sé, tanto da esserne ferito. Mi sentivo privo di una personalità dalle caratteristiche spiccate, non possedevo nessuna forma d’arte, non avevo abilità particolari e non ero in grado di conoscere il mio valore. I miei amici, tutti, potevano fare a meno di me.

Cercare di conoscere il proprio valore è come pesare qualcosa privi di un’unità di misura. L’ago della bilancia non riesce a fermarsi con uno scatto netto in un punto preciso.

Haruki Murakami rende incolore Tsukuru anche nel suo cognome. Gli altri quattro amici avevano questo dettaglio: i loro cognomi contenevano tutti un colore. Aka, Ao, Shiro e Kuro che sono la forma tronca degli aggettivi akai, aoi, shiroi e kuroi, significano rispettivamente rosso, blu, bianco e nero.

Dopo essere stato allontanato dagli amici, Tsukuru diventa una persona diversa, purtroppo nel suo senso negativo, perché in lui si fa più forte l’idea che gli altri lo reputavano una persona insignificante, un uomo che non valeva la pena di prendere in considerazione. Avevano rafforzato, insomma, l’opinione che lui aveva di sé. Per sei mesi ha vissuto sulla soglia della morte, ricreandosi un piccolissimo spazio solitario sul bordo di una buia voragine. Si era ridotto a uno scheletro. E soltanto grazie a uno stranissimo sogno, in cui Tsukuru conosce per la prima volta la gelosia, se smette di desiderare la morte, decidendo, al contrario, di ricominciare a fare dei pasti salutari e a prendersi di nuovo cura di sé. Rinasce in una nuova sua forma.

Insomma, il ragazzo che una volta si chiamava Tazaki Tsukuru era morto. Dopo aver esalato l’ultimo respiro, era svanito dentro tenebre selvagge ed era stato sepolto in una radura nel bosco. Di nascosto, in silenzio, alle prime luci dell’alba, quando la gente è ancora addormentata. Non aveva nemmeno una tomba. Quello che adesso era lì e respirava, era un nuovo Tazaki Tsukuru, un Tazaki Tsukuru il cui nucleo era stato, in gran parte almeno, sostituito. Ma era una verità che conosceva soltanto lui.

I sopravvissuti alla morte formano una corazza intorno al loro corpo, con la precisa intenzione di proteggersi da ulteriori ferite, pronti a sparpagliare i propri sentimenti lontano dai loro nuclei, nebulizzarli nell’etere. Perdono così anche il senso delle loro emozioni, diventando inaccessibili. Tazaki Tsukuru non riesce a creare nuove relazioni, ad averne di solide. Prova a conoscere altre persone, senza tuttavia essere capace di legarle a sé, frequenta alcune ragazze che inevitabilmente vanno via in silenzio, senza tanto rumore. L’unica che prova a restare è Sara che diventa anche il punto di svolta del romanzo, perché capisce che Tsukuru ha problemi affettivi, ma che può anche risolverli.

Dopo sedici anni dall’abbandono, Tazaki Tsukuru inizia il suo pellegrinaggio: deve trovare la motivazione di quell’abbandono, andare da ognuno dei suoi vecchi amici e chiedere loro, guardandoli negli occhi, le ragioni dell’allontanamento. Deve scoprire la verità, la terribile verità. Murakami, come è solito fare, inserisce un elemento musicale all’interno del romanzo, e in questo caso accompagna il protagonista nella risoluzione di sé, sulle note di Le mal du pays (Nostalgia di casa) di Franz Liszt, facente parte del ciclo pianistico Années de pèlerinage.

I sogni hanno grande rilevanza in “L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio”, senza tuttavia rendere onirico il romanzo che, quindi, resta sul piano della realtà, perché questi sono estensioni della personalità del protagonista che permettono al lettore di cogliere meglio la sua psicologia e il suo disagio, affettivo e sessuale (sessualità, anch’essa, non perfettamente risolta in Tsukuru). Haruki Murakami, seppure con una toccata e fuga, tratta in più punti anche l’omosessualità, sia da un punto di vista di capire cosa siamo e cosa ci piace sia dal punto di vista della difficoltà dell’accettazione di sé e della ricerca di una propria libertà in una società che offre opzioni limitate.

È come essere in crociera, e all’improvviso, in piena notte, venire scaraventato in mare dal ponte della nave.

Haruki Murakami in poco meno di trecento pagine ha regalato al lettore un quantitativo enorme di materiale su cui riflettere, nella sua prosa che fa emergere tra le pagine quel tipico velo svolazzante di leggera malinconia. Ha fatto sì che parti della storia sparissero nella sua coltre così da lasciare al lettore il compito della risoluzione o della riflessione e anche di dibattito con chi magari lo ha letto. “L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio” è un altro suo romanzo che ha conquistato le mie vette e che al solo sfogliarlo smuove le cime dei miei alberi.

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