Pensavo che scrivere un romanzo di formazione con protagonista una faina, fosse prerogativa di scrittori di altri tempi, come Richard Adams (autore de La collina dei conigli) o comunque di scrittori consapevoli della loro bravura. Bernardo Zannoni è nato nel 1995 e “I miei stupidi intenti” è il suo romanzo di esordio. Potente, crudo, viscerale. Maturo. Leggendolo si ha la sensazione di star leggendo un classico ritrovato, una di quelle storie che sotto la coltre di parole nascondono un sistema arterioso che pompa sangue dal nucleo del libro all’estremità di ogni ghirigoro di inchiostro.
Archy è nato d’inverno, al gelo, insieme agli altri suoi fratelli. Nato da una madre già arrabbiata col compagno morto troppo in fretta, perché ucciso dall’uomo a cui rubava le galline. «Disgraziato, disgraziato!», piangeva lei. «E adesso chi li cresce questi figli di nessuno?». Arrabbiata di dover procurarsi da sola il cibo, badare ai figli. Non hanno ancora aperto gli occhi che lei li minaccia di non ammalarsi, che i soldi del dottore non li ha. I giorni passano e anche loro si incattiviscono per la fame che annebbia la vista. I fratelli più grandi confabulano tra loro. «Potremmo mangiarci Otis. È piccolo, e debole». «Ho fame». La madre, quando giocano e fanno pasticci, li picchia, graffia loro gli occhi.
Quando Archy cresce un poco, tenta di procurarsi da solo il cibo, esce dal lettone, va fuori nel bosco in cerca di qualcosa da mangiare, da portare a casa dalla mamma. Si arrampica su un albero per rubare delle uova da un nido, ma i rami si spezzano, si schianta al suolo rompendosi una zampa. Diventa zoppo. Al suo ritorno alla tana, la madre è furiosa, ha l’inferno dentro. Lo prende, lo trascina via dalla tana e lo porta dalla volpe. «È zoppo. Non corre. A me non serve più». Lo abbandona.
La volpe si chiama Solomon, ruba per vivere, è uno strozzino da quando ha scoperto Dio, ascoltando i suoi insegnamenti. Vive in una casa grande, con possedimenti che si perdono a vista d’occhio. Archy è il suo sguattero, fatica per lui, ma Solomon vede qualcosa in quella faina, in un certo qual modo lo aiuta a ritrovarsi. Gli insegna a leggere la Bibbia e a scrivere, perché un giorno dovrà raccontare tra le pagine la storia di Solomon, come fu raccontata la storia di Dio.
Tutto il racconto è ammantato di animalità, nella sua accezione negativa, di istinti primordiali, fame e sopravvivenza, che spingono tutti i personaggi del libro a comportarsi brutalmente. La madre che sputa rabbia, rende ciechi i suoi figli e non si fa scrupolo di buttare via dalla tana il più debole. Solomon, la volpe, che dà per ricevere il doppio, tratta tutti con estrema cattiveria tenendoli in pugno. Ogni animale che appare è lì per mettere in scena la propria animalità. Lo stesso Archy quando morde i colli delle galline, il massimo godimento nel sentire il sangue scorrergli in bocca, o quando si accoppia con la sorella o si spingerebbe alla massima brutalità pur di sopravvivere.
Tra le pagine, però, ogni tanto affiorano una parola o una frase, tirate su a forza per emergere dalla poltiglia appiccicosa di istinti primordiali, che lasciano intravedere una sensibilità di Archy, quando chiede alla mamma se sta male per il papà che non c’è più, o quando Anja, la sua compagna, gli dice che lo ha voluto perché è fragile e delicato, perché sa che non le avrebbe mai fatto del male. «E i tuoi occhi parlano al profondo». Ma, non appena affiorano zampe salvifiche, portatrici di speranza, ecco che la poltiglia affossa di nuovo tutto, ricopre ancora per spingere giù, sempre più giù.
Bernardo Zannoni utilizza nella sua storia gli animali così come gli scrittori di un tempo li utilizzavano nelle favole, animali antropomorfi, per raccontare alla fine una storia umana. Gli animali sono esseri perfetti, fluidi, al contempo semplici, e si prestano benissimo a raccontare storie più complesse. A differenza di altre storie con animali antropomorfi, gli animali di Zannoni non sono conduttori di critiche sociali o politiche, ma semplicemente di una storia di formazione, dalla nascita della faina Archy al suo tramonto, e proprio grazie all’uomo divenuto faina che Zannoni ha potuto catalizzare dinamiche ed emozioni umane complesse, mediante la semplicità istintiva di un animale. È una storia cruda, governata da bisogni primordiali, che si fa a fatica a proiettare su un essere umano, eppure il lettore sa che se un incantesimo cancellasse gli animali, apparirebbero una serie di umani perfettamente rabbiosi e pronti a uccidere anche i propri figli pur di sopravvivere.
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Che bello! Meno male che l’ho letto altrimenti avrei dovuto comprarlo! 🤗